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venerdì 2 dicembre 2022

Il grafico più impressionante del ventunesimo secolo: L'impero colpisce ancora!

 Domenica 27 novembre 2022


Nel 1956, Marion King Hubbert aveva previsto che la produzione di petrolio degli Stati Uniti avrebbe seguito una curva "a campana", iniziando un declino irreversibile intorno al 1970. Aveva sostanzialmente ragione ma, intorno al 2010, la curva di produzione ha ripreso a crescere. Questo brusco rimbalzo è stato un evento sorprendente che ha riportato gli Stati Uniti al ruolo di maggior produttore mondiale di greggio e a diventare sensibilmente più aggressivi in termini geopolitici. Sostenuto dalla sua grande produzione di petrolio, l'Impero sta tornando a colpire, ma per quanto tempo? (immagine di Paul Kedrosky)


Anni fa, James Schlesinger ha osservato che gli esseri umani hanno solo due modalità operative: la compiacenza e il panico. È un'osservazione che suona vera e che possiamo generalizzare in termini di gruppi: alcuni esseri umani sono catastrofisti e altri cornucopiani. Io tendo a schierarmi con i catastrofisti, al punto che ho creato il termine"effetto Seneca" o "precipizio di Seneca" per definire il rapido declino che si verifica dopo l'arresto della crescita. In effetti, le catastrofi sono un evento comune nella storia umana, ma è anche vero che a volte (raramente) un declino catastrofico può essere invertito: ho chiamato questo effetto il "Rimbalzo di Seneca".


Un esempio impressionante di rimbalzo è rappresentato dalla storia della produzione petrolifera statunitense. Probabilmente sapete che nel 1956 Marion King Hubbert propose la sua idea della curva "a campana". La sua previsione si rivelò approssimativamente corretta: la produzione petrolifera statunitense iniziò a diminuire dopo il picco del 1970, seguendo una traiettoria che sembrava irreversibile. All'inizio degli anni 2000, dopo quasi 40 anni di declino, nessun geologo sano di mente avrebbe detto che il declino poteva essere fermato, per non dire invertito. Non si trattava di essere catastrofisti o cornucopiani: i membri di entrambe le categorie erano normalmente d'accordo sul fatto che estrarre grandi quantità di petrolio da fonti "non convenzionali" era semplicemente impensabile in termini economici.

Poi è successo qualcosa che ha cambiato tutto. Ci sono voluti alcuni anni prima che la nuova tendenza fosse chiara ma, a metà degli anni 2010, non poteva più essere ignorata. Nel 2018, la produzione statunitense era tornata ai livelli del picco del 1970. Nel 2019 lo ha superato e ha continuato a crescere. La produzione di gas naturale ha seguito la stessa tendenza, salendo rapidamente a livelli mai visti prima. Nel 2020, la crisi del Covid ha causato un nuovo calo della produzione, attualmente solo parzialmente recuperato. Ma lasciamo perdere il Covid, per il momento. Cosa è successo per cambiare così tanto le cose nell'industria petrolifera statunitense?

Probabilmente sapete che la causa ha un nome e una storia: si chiama "tight oil" o"shale oil", ("petrolio di scisto") estratto tramite "fracking". Di per sé, non è nulla di particolarmente nuovo, il concetto era già noto negli anni 1930. L'idea è quella di utilizzare l'alta pressione per fratturare la roccia che contiene il petrolio. In questo modo il liquido può fluire in superficie. Il problema del fracking è che è costoso. Tanto che si dice comunemente che fino ad oggi nessuno ci abbia guadagnato. Nel 2017, un'analisi del Wall Street Journal è arrivata alla conclusione che, dal 2007, "le compagnie energetiche hanno speso 280 miliardi di dollari in più di quanto hanno generato dalle operazioni sugli investimenti nello scisto". Altri analisti hanno espresso gli stessi concetti: si può estrarre petrolio dagli scisti, ma non aspettatevi di farci soldi sopra. Allora, perché si insiste a buttare denaro buono dentro pozzi cattivi?

Ci sono buone ragioni. Quelli che hanno scartato la possibilità di estrarre il tight oil erano perfettamente in grado di valutare la convenienza economica del processo, ma non hanno considerato che il "mercato" è un'astrazione che non funziona sempre, anzi, non funziona quasi mai. Quindi, le entità finanziarie che forniscono denaro per l'esplorazione petrolifera fanno parte di un mix di interessi che comprende l'industria petrolifera, l'industria aerospaziale, l'industria militare e altri. Questo mix è ciò che tiene in vita l'economia statunitense. Ma non ci sarebbero industrie aerospaziali o militari se l'industria petrolifera non fosse in grado di produrre petrolio in abbondanza.

È impossibile dire come sia stata presa la decisione di riversare immense quantità di denaro nel tight oil. Forse è stata una decisione strategica presa dalla lobby militare del governo statunitense (si può anche notare una curiosità: perché gli Stati Uniti sono stati l'unico Paese a investire nell'estrazione di shale oil? Dopo tutto, ci sono giacimenti di petrolio di scisto in molti altri Paesi. Mi viene in mente una spiegazione, ma lascio ai commentatori il compito di tirar fuori teorie cospirazioniste). O forse, la lobby finanziaria si è resa conto di poter sopravvivere alle perdite dei propri investimenti nel petrolio se questi investimenti mantenevano altri settori dell'economia in grado di generare profitti. O, forse anche, è stata una decisione collettiva nata dal grande panico del 2008, quando il prezzo del petrolio è schizzato a 150 dollari al barile. Quell'evento ha spaventato tutti a sufficienza da convincere alcuni dei protagonisti che investire nel petrolio era una buona idea. In ogni caso, con il secondo decennio del XXI secolo, il mondo è cambiato.




L'immagine qui sopra è di Michael Roscoe. Non è aggiornata agli ultimi livelli di produzione di petrolio, ma mostra come gli Stati Uniti abbiano dominato il mercato petrolifero (e il mondo) fino agli anni Sessanta. Per un certo periodo sono stati sfidati dalla Russia e dall'Arabia Saudita, ma ora gli Stati Uniti stanno tornando al comando. Come tutti i sistemi complessi, l'impero americano dipende dall'afflusso di energia dall'esterno. Non sorprende quindi che l'impero stia ritornando a colpire!


Una delle conseguenze visibili del ritorno dell'Impero è l'abbandono dell'Afghanistan, che aveva invaso 20 anni fa alla ricerca di nuove risorse petrolifere in Asia centrale. Queste risorse si sono rivelate evanescenti, forse inesistenti, ma gli Stati Uniti hanno insistito ostinatamente per rimanere nell'area. Poi, con il tight oil, i poteri forti si sono resi conto che gli Stati Uniti non avevano più bisogno di quelle risorse. E che potevano concentrarsi su obiettivi più succosi, muovendosi in modo aggressivo per spingere il suo principale concorrente, la Russia, fuori dal mercato europeo del gas. Gli Stati Uniti si stanno comportando in modo aggressivo anche nei confronti della Cina, che considerano giustamente il loro principale concorrente a lungo termine. Se questo porterà a una guerra ancora peggiore di quella che è in corso è tutto da vedere. Ma è l'energia che rende possibili le guerre.

Ma quanto durerà l'abbondanza creata dagli scisti? Come sempre, il futuro è oscuro, ma non del tutto. Il petrolio di scisto rimane una risorsa limitata, per quanto spesso si senta dire che ci regalerà secoli di prosperità o addirittura che la tecnologia lo ha reso illimitato. Dopo lo tsunami del Covid, la produzione di shale oil ha ripreso a crescere, ma non ha ancora raggiunto il livello del 2019. Inoltre, la sua crescita sta chiaramente rallentando, mentre l'Impero sta affrontando nuovi vincoli in termini di risorse sovrasfruttate: terra, acqua, cibo, suolo fertile e altro ancora.


Il tight oil raggiungerà di nuovo un picco e, questa volta, per sempre? Non possiamo dirlo. Possiamo solo dire che l'impero americano sta seguendo il flusso e il riflusso delle risorse che lo fanno esistere. Questo è il potere dell'energia, e gli imperi non sono che schiavi delle forze che governano l'universo!


 

lunedì 2 dicembre 2019

L'Arte della Guerra Secondo la Teoria dei Sistemi Complessi




DI UGO BARDI
https://cassandralegacy.blogspot.com/2019/10/the-art-of-war-according-to-science-of.html


Quindi, in tutte le tue battaglie combattere e conquistare non è la suprema eccellenza; l’eccellenza suprema consiste nello spezzare la resistenza del nemico senza combattere. (Sun Tzu, L’arte della guerra)


L’idea che il collasso possa essere uno strumento utilizzabile in guerra potrebbe risalire allo storico e teorico militare cinese Sun Tzu, che nel suo “L’arte della guerra” (5° secolo a.C.), enfatizza il concetto di vincere le battaglie sfruttando la debolezza del nemico piuttosto che la forza bruta.

È normale che in guerra il conflitto si concluda con il crollo di una delle due parti ma, in alcuni casi, il collasso avviene senza grossi combattimenti o addirittura nessuno. Un esempio particolarmente rappresentativo è quello del crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, arrivato dopo diversi decenni di “Guerra Fredda” che non era mai sfociata in un conflitto aperto. Come aveva già notato Sun Tzu, la capacità di innescare il collasso della struttura militare o socio-economica del nemico è probabilmente la strategia di risoluzione dei conflitti più efficace. Ma come raggiungere questo risultato? La moderna scienza dei sistemi complessi può dirci molte cose sui fattori coinvolti nel collasso di tali sistemi, sebbene non possa fornire ricette valide per tutte le situazioni.

Il collasso è una caratteristica dei sistemi caratterizzati da una rete di relazioni interne che comportano un feedback: società, economie, gruppi, aziende, eserciti ed altro ancora, sistemi che definiamo appunto “complessi.” Il feedback può smorzare o esaltare l’effetto delle perturbazioni sui vari elementi del sistema e può arrivare a generare un tipo di collasso chiamato “Collasso di Seneca” o “Scogliera di Seneca.” Questo collasso si verifica quando i diversi elementi del sistema agiscono in sinergia, intensificando gli effetti di una perturbazione che, alla fine, fa crollare l’intero sistema.

Dopotutto, la guerra è principalmente un problema di feedback tra entità combattenti. Gli eserciti manovrano, si scontrano tra loro, si ritirano o avanzano, ma il risultato finale è sempre lo stesso: la lotta termina quando i feedback si accumulano in modo tale che una delle due parti collassa. A quel punto, la battaglia è finita.

Possiamo considerare gli eserciti come reti di soldati, ognuno connesso ai soldati vicini. In uno scontro militare, la perdita di un singolo nodo, cioè di un singolo soldato, ha di per sé un effetto limitato sulle prestazioni del sistema. Ma può essere devastante se entra in azione il mortale meccanismo del feedback. Un soldato scappa, un altro soldato lo vede correre e fa lo stesso. Altri seguono l’esempio. Questo potrebbe causare la dissoluzione dell’intero esercito, un tipico esempio di collasso generato dal feedback e anche l’incubo dei comandanti militari di tutta la storia. Certo, negli eserciti reali le cose non sono così semplici, ma è anche vero che gli eserciti dell’antichità avevano spesso una catena di comando mal definita e questo li rendeva particolarmente esposti al crollo repentino. Ad esempio, nella battaglia di Manzikert, nel 1071 d.C., i Bizantini erano stati sconfitti dai Turchi perché, tra gli altri fattori, alcuni settori dell’esercito erano stati presi dal panico e si erano dati alla fuga.

Una volta che iniziamo a considerare la guerra in termini di sistemi complessi che interagiscono tra loro, possiamo capire come la selezione naturale sul campo di battaglia abbia portato gli eserciti ad evolversi in strutture più resistenti al collasso. Nel 1800, i Prussiani avevano sviluppato un esercito in cui ogni soldato avrebbe dovuto continuare a ricaricare e a sparare, indifferente a tutto ciò che accadeva intorno a lui. Idealmente, avrebbe dovuto continuare a sparare anche se fosse stato l’ultimo a rimanere in piedi. In pratica, i Prussiani avevano interrotto le connessioni orizzontali della rete dell’esercito, lasciando solo quelle “verticali” che collegavano i soldati ai loro ufficiali. Era il concetto, attribuito a Federico il Grande, che i soldati comuni avrebbero dovuto temere i propri ufficiali più del nemico. Questo aveva reso la rete resiliente al collasso: perdere un nodo non avrebbe comportato una valanga di perdite di nodi a causa del feedback.

L’idea prussiana si era dimostrata vincente ed è ancora il modo in cui sono organizzati gli eserciti moderni. Ma, se ha reso più difficile il collasso “dal basso,” ha aumentato le possibilità di un collasso dall’alto verso il basso. Un esercito strutturato verticalmente è vulnerabile ad un “attacco di decapitazione,” un concetto già noto a quelli che, molto tempo fa, avevano inventato il gioco degli scacchi. Un caso moderno di questo tipo di collasso si era verificato in Italia nel settembre del 1943. Dopo l’improvvisa rimozione del carismatico leader italiano, Benito Mussolini, le forze armate italiane si erano praticamente disintegrate quando il re d’Italia era fuggito dalla capitale, Roma, lasciando l’esercito senza comando e senza chiare istruzioni. In questo modo, [il re, con la sua fuga] aveva traslato nella vita reale il concetto scacchistico dello “scaccomatto.” Altri esempi di crollo per decapitazione esistono nella storia, uno è stato il collasso delle forze albanesi durante invasione italiana del 1939. Sarebbe stata ogni caso una lotta senza speranza, ma la fuga del re d’Albania, Zog, aveva causato la scomparsa totale di ogni resistenza, un altro caso di scaccomatto nella vita reale.

Alcuni casi di attacchi di decapitazione falliti. Un esempio è il tentativo di alcuni ufficiali tedeschi di uccidere Adolf Hitler nel 1944. Non erano riusciti nel loro intento, quindi non sapremo mai che cosa sarebbe successo se Hitler fosse morto quel giorno. Un altro esempio è stato l’attacco contro l’Iraq nel 2003, che mirava ad uccidere la maggior parte dei membri del governo iracheno. Anche quel tentativo era fallito.

Il problema insito nell’idea di distruggere una struttura militare per decapitazione è duplice: il primo è che anche il nemico sa benissimo che i sui leader sono un obiettivo di valore e quindi fa di tutto per proteggerli il meglio possibile. Bisogna ricordare qui la figura del kagemusha, il “guerriero ombra” della storia militare giapponese, il cui compito era quello di impersonare un leader militare per indurre il nemico a concentrare i propri sforzi su di lui, piuttosto che sul vero bersaglio. E’ anche vero però che in tempi moderni gli eserciti hanno sviluppato una struttura meno rigida, in cui le piccole unità possono continuare a combattere anche se perdono il contatto con il loro centro di comando. È un modo di combattere che era stato introdotto da Edwin Rommel durante la Prima Guerra Mondiale ed ampiamente utilizzato da Heinz Guderian durante la Seconda.

Un altro esempio recente di resilienza in un conflitto armato è stato lo scontro del 2006 tra Israele ed Hezbollah, in Libano. L’apparato bellico di Hezbollah è ben lungi dall’essere un esercito tradizionale: è un sistema altamente resiliente basato su piccole unità con pochissimi collegamenti tra loro. Alla fine, [questo sistema] ha avuto la meglio contro un avversario teoricamente molto più potente. Dare un certo grado di libertà alle piccole unità è rischioso, poiché queste unità potrebbero non comportarsi secondo gli ordini del comando centrale. Ma sembra essere molto efficace nei tempi moderni, anche a causa dello sviluppo delle moderne tecniche di propaganda. Oggi, i soldati normalmente non combattono per denaro, sono fortemente condizionati dalla propaganda o dalle credenze religiose.

Alla fine, condurre una guerra è praticamente una questione di comando e controllo ed esistono molte possibili interpretazioni su come controllare un esercito in modo da renderlo resistente al collasso. Fino ad oggi, la propaganda rimane il principale strumento motivazionale per indurre i soldati a combattere ma, come ho affermato in un precedente post, la guerra moderna sembra affidarsi sempre più ad armi robotizzate, telecomandate o addirittura autonome.

Un concetto legato alla nascita dei robot militari è quello del “Network Centered Warfare” chiamato anche, talvolta, “Effect based operations.” L’idea è di trasformare un esercito in una singola arma usando sofisticate tecniche di comunicazione. La domanda, quindi, è chi controllerebbe quell’arma? Se esiste un unico sistema di controllo centrale, l’intero sistema diventa nuovamente vulnerabile ad un attacco per decapitazione. Un attacco al centro operativo potrebbe renderlo inutile, proprio come i pezzi sulla scacchiera quando il re è sotto scacco.

Ma è anche perfettamente possibile organizzare i robot militari in unità piccole e relativamente indipendenti. Non cambia però la domanda principale: chi controllerà i robot militari? È una domanda che, finora, non ha trovato una risposta semplice. Ovviamente, i robot non sono sensibili alla propaganda, ma i loro controllori sono ancora esseri umani. La propaganda è uno strumento che era stato sviluppato per controllare i fanti schierati in tricea di fronte al nemico, ora abbiamo bisogno di strumenti per controllare i controllori dei robot,  professionisti specializzati che operano in sicurezza da postazioni remote. Tecniche appropriate non sono ancora state sviluppate e non sappiamo quale forma potrebbero prendere e in che modo influenzerebbero il modo di condurre una guerra.

Quindi, è difficile prevedere quale sarà il futuro delle tecniche di guerra ma, chiaramente, nulla cambierà nelle sue caratteristiche di base: la guerra è una lotta che può essere combattuta nello spazio reale, nello spazio virtuale o in entrambi. Probabilmente vedremo un grosso passaggio alla guerra virtuale, ma quello che stiamo seguendo è un percorso tortuoso. Come sempre, il futuro sarà quello che doveva essere.



Tratto da “The Seneca Effect” (Springer 2017)
Fonte: cassandralegacy.blogspot.com
Link: https://cassandralegacy.blogspot.com/2019/10/the-art-of-war-according-to-science-of.html

martedì 24 aprile 2018

Cos'è L' "Effetto Seneca" e Perché è Importante


Questo Post è apparso su "GreenReport" il 10 Aprile 2018

Sostenibilità e “Effetto Seneca”: un antico paradigma che vale anche per i nostri tempi

 O del perché l'ecosistema in cui viviamo non è un supermercato dal quale possiamo prendere quello che ci serve, senza nemmeno dover pagare

di Ugo Bardi

Circa 2.000 anni fa, il filosofo romano Lucio Anneo Seneca scrisse al suo amico Licilio notando che “la crescita è lenta, ma la rovina è rapida”. Era un’osservazione soltanto apparentemente ovvia. Per esempio, vi ricordate della mela di Newton? Tutti sanno che le mele cadono dagli alberi, ma ci è voluto Newton per tirar fuori da questa cosa ben nota una cosa che non era affatto ovvia: la legge della gravitazione universale.

È la stessa cosa per l’osservazione di Seneca che “la rovina è rapida”, che si rivela la chiave di volta per capire gli sviluppi di quello che oggi chiamiamo la “scienza della complessità.” Nell’arco di alcuni decenni, a partire dagli anni ’60 del XX secolo, lo sviluppo del calcolo digitale ha permesso di affrontare problemi che, ai tempi di Newton (per non dire di quelli di Seneca) non si potevano studiare se non in modo molto approssimato.

E così questa nuova scienza ci ha permesso di addentrarci in un mondo che in un certo senso ci era familiare: il mondo delle cose reali che nascono, crescono, e alle volte collassano in modo rovinoso. Ma era anche un mondo che gli scienziati di una volta, abituati a descrivere tutto con delle equazioni, trovavano difficile da capire e che – in pratica – ignoravano. Ma non ci sono equazioni per certi fenomeni naturali come i terremoti, gli uragani, le eruzioni vulcaniche e nemmeno per cose apparentemente semplici come lo scoppio di un palloncino. Nemmeno ci sono equazioni per fenomeni più virtuali, come il collasso degli imperi, i crolli del mercato azionario, la sparizione dei partiti politici, e tante altre cose.

Tutte queste cose, e molte di più, le ho messe insieme nel mio libro che ho intitolato “L’Effetto Seneca” in onore dell’antico filosofo romano. È una storia che racconto a partire da un esempio classico che, nel libro, ho chiamato “la madre di tutti i collassi,” quella dell’Impero Romano. Ma nel libro si parla di tantissime cose: la rottura di oggetti, il crollo degli edifici, la frequenza dei terremoti, la guerra, i mercati finanziari, le estinzioni di massa e tante altre cose. La tesi di fondo è che tutti questi fenomeni hanno molto in comune: il meccanismo del collasso avviene per quello che in inglese chiamiamo “feedback” e che in italiano definiamo come “retroazione”. Più figurativamente, potremmo chiamarlo “effetto valanga” (o anche, ovviamente, “effetto Seneca”).

Ovvero, i sistemi collassano quando uno degli elementi che li compongono cede, ma non soltanto: causa il cedimento degli elementi che lo circondano. Questi, a loro volta, causano il cedimento di altre cose e il crollo si propaga – spesso molto rapidamente: come diceva Seneca, “La rovina è rapida”. È una caratteristica dei sistemi che chiamiamo “network”, che hanno conosciuto uno sviluppo rapidissimo degli studi in proposito.

Ma tutto questo serve per prevedere il futuro? È la domanda che mi viene posta spesso a proposito di questo libro. La risposta è, per dirla con Mark Twain, che le previsioni sono sempre difficili, specialmente quando hanno a che vedere con il futuro. Ma, del resto, che cos’è il futuro se non un fascio di possibilità che noi stessi decidiamo se trasformare in realtà o no? Il futuro non si può prevedere, si può soltanto essere preparati per il futuro.

Seneca stesso sarebbe probabilmente stato d’accordo con questo concetto: era profondamente ingranato nella filosofia stoica (di cui Seneca era un esponente) che dobbiamo sempre essere preparati per il futuro, ben sapendo che la rovina ci può arrivare addosso in qualsiasi momento. Questo vale sia per gli individui come per un’intera società.

Così, i modelli matematici che descrivono “l’Effetto Seneca” sono una quantificazione di un’antica saggezza. Ci possono essere utili per tante cose, forse la principale per renderci conto che l’ecosistema in cui viviamo non è un supermercato dal quale possiamo prendere quello che ci serve – e senza nemmeno dover pagare. È un sistema complesso soggetto al collasso di Seneca. E siccome anche noi facciamo parte dell’ecosistema, il collasso ci può fare grossi danni, per esempio nella forma di cambiamento climatico con tutti gli annessi uragani, siccità, ondate di calore eccetera. Anche uno stoico come Seneca avrebbe detto che se si può cercare di evitare il collasso climatico e altri collassi ambientali, bisogna provarci. Proviamoci.



“The Seneca Effect” è edito in inglese da Springer, e in tedesco da Oekom Verlag. Per il momento non c’è una versione italiana. Ci stiamo lavorando sopra.

“The Seneca Effect” è un rapporto commissionato dal Club di Roma, il quarantaduesimo dopo il celebre rapporto sui limiti dello sviluppo (“The Limits to Growth”) commissionato al Massachussets Institute of Technology e pubblicato nel 1972. È stato presentato nei giorni scorsi nell’Aula magna dell’Università di Firenze.

domenica 15 ottobre 2017

In che modo funziona la Natura: quanto è comune la curva di Seneca? Il discorso di Ugo Bardi alla Summer Academy del Club di Roma a Firenze

Da “Cassandra's Legacy”. Traduzione di MR


Ugo Bardi alla Summer Academy del Club di Roma a Firenze, settembre 2017.


Il mio discorso alla Summer Academy del Club di Roma è stato più che altro una presentazione del mio ultimo libro “The Seneca Effect” (Springer 2017) . Di fatto, naturalmente, un libro contiene molte più cose di quante se ne possano dire in un discorso di 40 minuti. Quindi ho cercato di concentrarmi sull'idea che il comportamento che chiamo “curva di Seneca” sia molto comune, persino universale. Sotto potete vedere la curva di Seneca: le cose salgono lentamente ma collassano rapidamente, come ha detto per la prima volta il filosofo Romano Seneca duemila anni fa. Potete vedere la stessa curva anche nella maglietta che indossavo alla Academy.


Forse avete sentito il vecchio detto latino “Natura non facit saltus” (La natura non fa salti), che significa che le cose cambiano gradualmente, non all'improvviso. Potrebbe essere vero in molte circostanze ma, in pratica, ma è del tutto normale che la Natura accumuli potenziali energetici (come quando gonfiate un pallone) e poi li rilascia all'improvviso (come quando bucate un pallone). Questo è il tema della copertina della versione tedesca del mio libro.

Ci sono delle ragioni per le quali la Natura si comporta così, ma l'argomentazione che ho portato alla scuola non è stato tanto sul perché la curva sia così comune, ma sul fatto che gli esseri umani normalmente non ne sono consapevoli. Infatti, il nostro pensiero spesso determinato dall'idea che le cose continueranno ad evolvere nel modo in cui si sono evolute fino a quel punto. Pensate solo alla crescita economica e noterete in che modo gli economisti si aspettano che questa continui a crescere per sempre. Non c'è bisogno di dire che l'economia è uno di quei sistemi complessi che sono più vulnerabili al collasso di Seneca.

Ho quindi provato a sottolineare che la comprensione  che la Curva di Seneca esiste ed è comune è una scoperta recente. Anche se Seneca lo aveva capito per intuizione già 2000 anni fa, nella sua forma moderna ha meno di un secolo. E' stata proposta per la prima volta da Jay Forrester negli anni 60 ed è stata consacrata nello studio “I limiti dello sviluppo” del 1972, anche se il termine “Effetto Seneca” non è stato usato.

Durante il mio discorso, ho mostrato questa immagine per evidenziare in che modo le nostre idee sul percorso dei sistemi complessi si sono evolute nel tempo.


Vedete qual è l'idea moderna di “overshoot” (e del collasso conseguente). Malthus non lo aveva capito. Nonostante venga spesso accusato di catastrofismo, non poteva prevedere il collasso sociale; gli mancavano gli strumenti intellettuali necessari. Era un ottimista! Oggi, c'è questo concetto. Sappiamo che i sistemi complessi tendono non solo a declinare, tendono a collassare. Ma questa percezione manca completamente dal dibattito pubblico.



Quando si fa menzione del collasso sociale, ci sono due reazioni possibili. La più comune è che una cosa del genere non succederà mai. Poi, se si riesce a convincere le persone che è possibile, questa fanno tutto quello che possono per mantenere in piedi il sistema, a prescindere da quello che ci vuole. Non si rendono conto che quando si supera la capacità di carico del sistema, bisogna tornare indietro, in un modo o nell'altro. E più si cerca di stare al di sopra del limite, più veloce e severo sarà il rientro. Quello che si deve fare è rendere più leggero il collasso, seguirlo, non cercare di fermarlo. Altrimenti sarà peggio.

Così, sembra che qui ci troviamo di fronte ad un blocco culturale. Forse non lo supereremo mai, o forse sì, chi lo sa? Nei tempi antichi, l'Imperatore Marco Aurelio, un filosofo stoico proprio come Seneca,  aveva ben chiaro questo concetto. Sapeva che tutto nel mondo è impermanente, compreso l'Impero Romano. Essendo un uomo virtuoso, ha fatto tutto ciò che era in suo potere per fare il suo dovere come Imperatore. Ma ha riconosciuto i suoi limiti, ed è questo che ha scritto nelle sue “Meditazioni”.



Dobbiamo anche riconoscere i nostri limiti. Seguire il cambiamento, non cercare di fermarlo. La Natura sta cambiando tutte le cose che vediamo e con la loro sostanza farà cose nuove per fare in modo che il mondo sia sempre nuovo. E' così che funziona la Natura.


giovedì 14 luglio 2016

La fine del “boom della popolazione”: il collasso di Seneca della popolazione irlandese durante la grande carestia

Da “Cassandra's Legacy”. Traduzione di MR

di Ugo Bardi

La storia della Grande Carestia in Irlanda è un chiaro esempio di “Collasso di Seneca”, cioè di un caso in cui il declino è più rapido della crescita. E' una cosa che ci aspetta a livello globale? (Fonte dell'immagine Rannpháirtí anaithnid - vecchio - presso la English Wikipedia) 


In un post precedente, ho sostenuto che molte proiezioni attuali sulla popolazione globale sono erroneamente basate sull'idea che la “transizione demografica” funzionerà al contrario. Cioè, spesso si ipotizza che le persone impoverite tendano a fare più figli e che quindi la popolazione mondiale continuerà a crescere anche nel bel mezzo delprofondo declino economico che potrebbe accompagnare una crisi di risorse e climatica (questa, per esempio, era l'ipotesi dello studio originale del 1972 “I limiti della crescita”).


Ho invece proposto che l'inizio di una grande crisi economica/climatica causerà una immediata riduzione dei tassi di nascite, in parte in conseguenza della salute in declino delle donne fertili e in parte di una reazione razionale da parte delle famiglie che capirebbero che possono prendersi cura solo di un numero limitato di bambini in una condizione di aumento di povertà in aumento.

Ovvero, non ci sarà un aumento della popolazione nel bel mezzo di una crisi e il declino dei tassi di nascite porterebbe immediatamente all'inizio di un declino mondiale della popolazione che potrebbe potrebbe anche assumere la forma di un vero e proprio “Collasso di Seneca”. Per sostenere la mia tesi, ho portato l'esempio della ex Unione Sovietica, la cui popolazione ha cominciato a declinare persino prima del collasso politico dell'Unione. Ho menzionato anche diversi esempi di altri paesi occidentali (vedi l'Italia) in cui i tassi di nascite sono scesi in parallelo col peggioramento delle condizioni economiche, al punto che stiamo cominciando a vedere un declino generale della popolazione.

Questa interpretazione è stata criticata nei commenti da alcuni che obbiettavano che sì, la mia idea potrebbe essere giusta per paesi relativamente moderni ed “Occidentalizzati”, ma non per le aree più povere come l'Africa e l'Asia. Questi commentatori hanno obbiettato che le persone di quelle aree continueranno a fare quanti più figli possibile a prescindere da cosa succede intorno a loro, apparentemente in conseguenza degli Imam che dicono loro di farlo (o a causa del malvagio dittatore Erdogan, o persone del genere).

Non credo che questa critica sia giusta e posso ribattere con un esempio. Conosciamo tutti la storia della carestia irlandese che ha avuto luogo fra il 1845 e il 1852 e che ha ucciso una grande percentuale della popolazione irlandese. Sappiamo qualcosa sul numero di morti e su quanti irlandesi sono emigrati, ma sappiamo relativamente poco sul modo in cui la carestia ha condizionato i tassi di nascite. Le donne irlandesi hanno cercato di compensare la mortalità più alta facendo più figli?

Su questo punto ho trovato uno studio completo fatto da Phelim P. Boyle e Cormac O Grada sul volume 23, n° 4 del novembre 1986 di “Demography”, pp. 543-562 (qui il link). Servono alcune ipotesi ed estrapolazioni per determinare i tassi di nascite irlandesi prima e dopo la carestia. Non riportano nemmeno dei grafici, ma solo tabelle. Tuttavia, la loro conclusione è chiara: il tasso di natalità è sceso con la carestia in Irlanda. In altre parole, le famiglie irlandesi non hanno cercato di compensare la loro maggiore mortalità facendo più figli, niente affatto.

Ciò è confermato da quello che sappiamo della popolazione irlandese nei decenni dopo la carestia. Anche se le forniture alimentari smisero di essere un problema, la popolazione continuava ancora a declinare o rimanere stabile ben oltre l'inizio del XX secolo. Gli irlandesi di allora non avevano buoni contraccettivi, ma sembra che ci siano riusciti principalmente ritardando l'età del matrimonio ed adottando uno stile di vita che scoraggiasse l'attività sessuale fra i giovani.

Ciò è rilevante per il caso di cui discuto qui. Nel XIX secolo, i contadini irlandesi erano cattolici (o, se preferite, “papisti”). La visione cattolica del matrimonio doveva essere allora (come è ancora oggi in alcune cerchie) quella per cui una coppia sposata debba avere quanti figli quanti gliene manda il Signore – cioè il maggior numero possibile. Dopo la carestia, gli irlandesi sono rimasti cattolici, ma hanno completamente trascurato il consiglio che potrebbero aver ricevuto dai loro preti. Si è trattato di una scelta del tutto razionale – gli irlandesi non erano stupidi.

Stiamo chiaramente discutendo di qualcosa di difficile da quantificare, ma tendo a pensare che la maggior parte delle persone su questo pianeta non siano così stupide come credono gli specialisti di pubbliche relazioni. Così, da questi esempi storici (Russia ed Irlanda) direi che una crisi economico/climatica futura sarà immediatamente accompagnata da un declino dei tassi di nascite e quindi della popolazione. Se questo succede, sarà una cosa buona in quanto la pressione sull'ecosistema verrà ridotta. Ciò non significa che avremo risolto tutti i problemi che abbiamo di fronte, ma perlomeno non dobbiamo preoccuparci del fatto che le persone peggiorino la situazione riproducendosi come conigli.