venerdì 17 luglio 2015

I tre gentiluomini dell’apocalisse.

di Jacopo Simonetta

Ogni volta che le cose volgono al peggio, i 4 cavalieri di cui parla S. Giovanni tornano a galoppare nei cieli.  O perlomeno nella fantasia delle persone.

Altri si dedicano invece ad investigare l’intrico di retroazioni e forzanti che stanno guidando l’umanità, facendo ricorso ai più moderni ritrovati della scienza e della tecnica.   Ma già un paio di secoli addietro tre distinti gentiluomini, fra una pinta di birra ed una passeggiata a cavallo, avevano capito alcune cose fondamentali.   O, perlomeno, avevano visto bene tre grossi scogli contro cui rischiava di andarsi a fracassare la barca del progresso umano, a tutti loro molto caro.

Il primo è quello più noto: Il reverendo Thomas Robert Malthus (1766-1834).   Oggi va molto di moda usare il termine “malthusiano” come insulto, sulla base della leggenda secondo cui il reverendo avrebbe sostenuto l’inutilità di aiutare i poveri.   Avrebbe quindi fornito un pretesto ai più ricchi per coltivare l’avidità e l’egoismo come fossero delle “virtù”.   Lungi da ciò, Malthus aveva fatto due osservazioni semplici e fondamentali:

- La popolazione umana cresce più rapidamente della disponibilità di risorse, quindi la disponibilità pro-capite delle medesime è destinata a diminuire.
- Generalmente, i poveri fanno più figli dei ricchi.

Con semplice logica, ne aveva dedotto che il modo principale per aiutare i poveri era quindi far loro capire che avere pochi figli era un prerequisito per migliorare le condizioni della famiglia.    L’aiuto agli indigenti era importante e doveroso, ma se non fosse stato saldamente correlato ad una diminuzione della natalità avrebbe semplicemente peggiorato la situazione, permettendo un sempre maggiore incremento della popolazione e, dunque, della povertà.   Si spinse anche a pronosticare che, se la crescita demografica dell’Inghilterra e degli altri paesi europei non fosse stata fermata, i “selvaggi delle Americhe” sarebbero stati sterminati dalla marea montante.   Una prospettiva di cui si doleva e che invitava i governi ad evitare.

Ovviamente, le cose non sono andate esattamente come aveva previsto.   Tanto per cominciare, le risorse non crescono in modo lineare (come da lui sostenuto) bensì diminuiscono in ragione del loro tasso di sfruttamento e solo in alcuni casi è possibile un parziale recupero.   Casomai, quella che aumenta è la disponibilità delle medesime e non necessariamente in modo lineare, ma l’aumento del flusso comporta quasi sempre un’erosione delle scorte.   Viceversa, aveva visto giusto sullo straripare della massa dei poveri d’Europa , con le conseguenze che sappiamo.   Per quasi un secolo le frontiere est ed ovest della civiltà industriale sono avanzate inesorabilmente, fino ad incontrarsi in Alaska.   Lo sterminio dei “selvaggi” è stato quindi anche maggiore di quello temuto da Malthus, eppure fra la fine del XIX e gli anni ’70 del XX secolo parve che la tetra previsione di un tasso di miseria irreversibilmente crescente fosse stata scongiurata.   Anzi, per quasi 100 anni l’aumento di produttività reso possibile dal petrolio fece sì che la disponibilità di risorse aumentasse molto più rapidamente della popolazione.   Di qui un aumento del benessere e non della miseria!   Che poi questo non sia stato equamente ripartito è un dato di fatto connesso sia con scelte politiche arbitrarie che con leggi termodinamiche ineluttabili, ma non inficia il fatto che l’umanità ha potuto deridere e disprezzare questo prete di campagna.

Ma negli anni ’60, dunque nel pieno della fase di crescita più spettacolare delle economie occidentali, in Asia scoppiarono una serie di carestie che sostanzialmente riproponevano gli stessi “meccanismi” descritti da Malthus per l’Europa, quasi un secolo prima.   Stavolta non c’erano più continenti “vergini” in cui far straripare la massa umana, ma la crisi fu ugualmente superata grazie alla cosiddetta “rivoluzione verde”.   Ad onta del suo nome, si trattò di industrializzare l’agricoltura su scala globale.   Meccanizzazione, concimi di sintesi, irrigazione, nuove varietà e mercato internazionale spazzarono via ecosistemi, colture e società tradizionali, ma eliminarono le carestie.   Dal punto di vista energetico, significò che il petrolio e, secondariamente, il gas maturale divennero gli alimenti principali dell’uomo, ma comunque Malthus era stato nuovamente e platealmente smentito dai fatti.

Eppure, proprio in questi anni, sta maturando un’altra crisi tipicamente maltusiana di scala globale.   I tassi di sovrappopolazione sono ovunque molto più alti di 50 anni fa e le rese agricole tendono al ribasso per una combinazione di fattori fra cui primeggiano l’erosione dei suoli, il cambiamento del clima, la diffusione di infestanti resistenti ai pesticidi, i costi di produzione, il declino quali/quantitativo delle risorse energetiche.   Abbiamo imparato a mangiare petrolio, ma il picco del greggio di buona qualità ed a buon mercato è alle nostre spalle; quello del gas probabilmente non molto lontano.   Esistono ancora immense riserve di energia fossile, ma sono di scarsa qualità e costose, mentre il loro uso provoca “effetti collaterali” sempre più gravi.

Riusciremo a superare anche questa crisi?    Forse.   A parte un numero ancora consistente di soggetti che fantasticano di un mondo di risorse infinite, o perlomeno infinitamente sostituibili, la grande maggioranza degli economisti, dei politici e dei tecnici sostiene che usciremo dalla trappola grazie ad una risorsa autenticamente rinnovabile: l’ingegno umano.   Il progresso tecnologico consentirà, infatti, di fare sempre di più con sempre di meno.    Esistono, certo, dei limiti teorici a ciò che può essere fatto, ma i margini per un aumento dell’efficienza complessiva dei processi di produzione, trasporto e riciclaggio sono ancora immensi.   Ed aumentare l’efficienza significa ridurre i consumi e l’inquinamento, pur continuando sull'aurea strada che ci ha condotti dalle caverne alle stelle.

E’ a questo punto che entra in scena il secondo dei nostri “gentlemen”: sir William Stanley Jevons (1835 – 1882).   Uno dei “padri” della scuola economica “neoclassica”.   Dunque non un nemico del progresso e nemmeno un ambientalista fanatico, bensì un naturalista prestato all’economia.   Del suo lavoro, quello che qui ci interessa soprattutto sono due punti fondamentali.   La teoria dell’utilità marginale e lo studio sugli effetti della tecnologia sulla dissipazione di energia.

Lo studio dei vantaggi marginali elabora un'intuizione di David Ricardo (grande amico personale di Malthus) ed è stato la pietra fondante della micro-economia moderna.   In buona parte, gli si deve il molto maggior successo delle economie capitaliste rispetto a quelle socialiste (finora).    Ma è anche alla base di quella legge dei “ritorni decrescenti”   che sta smantellando pezzo per pezzo la macroeconomia del capitalismo globale.

Lo studio dei consumi energetici, portò invece lo studioso britannico ad osservare che, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, l’aumento dell’efficienza energetica aumenta i consumi di energia anziché ridurli: il cosiddetto “paradosso di Jevons”.   Un argomento su cui da allora si confrontano e si scontrano gli economisti, ma pare proprio che il sogno di un progresso alimentato da un aumento indefinito dell’efficienza sia destinato a fallire.   A meno che la politica non abbia la capacità e la volontà di imporre dei limiti al prelievo di risorse.

Ed è su questo punto che entra in scena il terzo gentiluomo: Alexis-Henri-Charles Clérel, vicomte de Tocqueville (1805-1859).   Politico e politologo di fama, era un liberale convinto e compì un lungo viaggio negli Stati Uniti per studiare quello che allora era il principale stato repubblicano del mondo.   Ne tornò affascinato, ma anche preoccupato per i pericoli che insidiavano lo sviluppo della democrazia.   In particolare, approfondì il delicato equilibrio che è necessario mantenere fra libertà individuale, uguaglianza e potere pubblico, individuando due possibili sviluppi perversi della democrazia.

Il primo è quello che definì la “dittatura della maggioranza”.   In pratica, se una netta maggioranza di cittadini propende per un’idea, può essere in grado di imporla a tutti, poco importa se ciò sia giusto o meno.   In altre parole, la maggioranza può annichilire la libertà individuale, fondamento della democrazia stessa.   La comunità può quindi trovarsi schiacciata verso una sorta di “minimo comune multiplo” da cui sarebbe quasi impossibile riscattarsi.

Il secondo è un tipo di dispotismo che, utilizzando l’arma potentissima del benessere, può mantenere i cittadini in uno stato di perenne infantilismo, così da mantenere il proprio potere, senza che neppure maturi un sentimento di rivolta.

Chi studia le società occidentali odierne trova in Tocqueville ampio materiale di riflessione, ma quello che qui ci preme è il rapporto che tutto ciò ha con la crescita economica e demografica di cui parlavano i primi due studiosi.   Se è vero che l’unico modo per evitare la catastrofe è che siano posti dei limiti consistenti alla natalità ed alla disponibilità di energia, non saranno né una maggioranza massificata, né un regime dispotico – populista ad imporli.

E dunque?   L’evoluzione politica dei prossimi decenni sarà convulsa in tutti i paesi ed una tendenza a governi più autoritari sembra diffondersi, ma non credo che ciò sia prodromo di buone notizie da alcun punto di vista, men che meno da quello ambientale.

A suo tempo, come antidoto sia alla dittatura della maggioranza, sia al dispotismo, Tocqueville raccomandava ogni forma possibile di democrazia diretta, tradizionale e non, come assemblee cittadine, associazioni di ogni sorta, eccetera.    Non possiamo sapere se avrebbe funzionato, perché abbiamo fatto piuttosto il contrario, ma siamo ancora in tempo per provare?    In giro per il mondo qualcuno ci sta lavorando con risultati altalenanti.   Vedremo.