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venerdì 9 dicembre 2022

Qual è la prossima cosa che ci arriverà addosso? Preparatevi, perché potrebbe essere una gran bella botta


Nonostante io abbia antichi veggenti come antenati (gli "aruspici"), non pretendo di essere in grado di prevedere il futuro. Ma credo di poter proporre degli scenari per il futuro. Quale potrebbe essere il prossimo disastro che ci arriverà addosso? Suggerisco che sarà lo sconvolgimento del mercato petrolifero causato dalla recente misura di un tetto al prezzo del petrolio russo.


Vi ricordate quante cose sono cambiate negli ultimi 2-3 anni, e sono cambiate in modo incredibilmente veloce? C'era uno schema in questi cambiamenti: una parte dello schema era che dovevano essere solo temporanei, un altro era che erano per il nostro bene. Ci è stato detto che erano necessarie"due settimane per appiattire la curva", che "le sanzioni faranno crollare l'economia russa in due settimane" e molte altre cose. Poi, i nostri problemi saranno risolti e il mondo tornerà alla normalità. Ma questo non è successo. Al contrario, il risultato è stato una "nuova normalità", per nulla simile a quella vecchia.

Ora, la domanda più ovvia è "e adesso?" Più esattamente,"con cosa ci colpiranno la prossima volta?". "C'è l'idea che possa esserci una nuova pandemia, un nuovo virus o il ritorno di quello vecchio. Ma no. Sono più intelligenti di così: finora sono sempre stati un passo, forse due, avanti a noi. Sono maestri di propaganda, sanno che la propaganda si basa sui memi e che i memi hanno una durata limitata. I vecchi memi sono come i vecchi giornali, non sono più interessanti. Un particolare spauracchio non può spaventare la gente per troppo tempo, e l'idea di spaventarci con un virus pandemico ha superato la sua utilità. Potrebbero averci sondato con la pandemia del "vaiolo delle scimmie", e hanno visto che non ha funzionato. Era comunque ovvio. Quindi, ora che si fa?

Permettetemi di suggerire un possibile nuovo modo di colpirci. Forse ne avete sentito parlare ma, finora, si pensava che fosse qualcosa di marginale, non destinato a creare un'altra "nuova normalità". Ma potrebbe. È enorme, è gigantesco, sta arrivando. È il il tetto sui prezzi del petrolio russo. L'idea è che un cartello di Paesi, soprattutto occidentali, si mettono d'accordo per vietare l'importazione di petrolio russo a meno che non abbia un prezzo inferiore ai 60 dollari al barile. Inoltre, renderà più difficile per la Russia esportare petrolio all'estero, anche nei Paesi che non aderiscono all'accordo.

Questa idea è, come al solito, promossa come un modo per aiutarci. Non solo danneggerà il malvagio Putin, ma ridurrà i prezzi del petrolio, quindi tutti in Occidente dovrebbero essere felici. Ma funzionerà davvero? A dir poco difficile, ed è probabile che i promotori lo sappiano molto bene.

Pensateci: negli ultimi cento anni non è mai successo che un cartello di Paesi intervenisse per imporre un certo prezzo del petrolio a livello mondiale. Anche durante la "crisi petrolifera" degli anni '70, l'Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (OPEC) non ha mai fatto ciò che viene spesso accusata di aver fatto, fissando un prezzo elevato del petrolio. L'OPEC può solo fissare quote di produzione o sanzionare alcuni Paesi, ma non ha alcun potere, e non l'ha mai avuto, sui prezzi, che sono stabiliti dal mercato internazionale.

Quando i governi si intromettono nei prezzi, i risultati sono sempre negativi. In genere, i prezzi dei beni vengono fissati troppo bassi e ciò produce due effetti: la nascita di un mercato nero e la scomparsa dei beni dal mercato ufficiale. Era una caratteristica tipica dell'economia sovietica, dove i prezzi erano spesso fissati a livelli bassi per dare l'impressione che certi beni fossero alla portata di tutti. Ma non era così: in teoria, la maggior parte dei cittadini sovietici poteva permettersi il caviale venduto ai prezzi stabiliti dal governo. In pratica, questo caviale non si trovava quasi mai nei negozi. Ma, naturalmente, era possibile trovarlo al mercato nero, se si potevano pagare prezzi esorbitanti.

Oggi, intervenire per fissare un prezzo per il petrolio russo equivale a gettare una chiave inglese negli ingranaggi di una macchina enorme. Nessuno sa esattamente come reagirà il mercato petrolifero globale. L'unica cosa certa è che i russi si rifiutano di vendere il loro petrolio ai Paesi che hanno sottoscritto l'accordo. Il risultato complessivo dell'eliminazione di un grande produttore dal mercato può essere solo uno: l'aumento dei prezzi del petrolio. Esattamente l'opposto di ciò che il price cap dovrebbe fare. Ma questo è il minimo che possa accadere: gli effetti del tetto sono imprevedibili su un mercato già instabile e soggetto a oscillazioni selvagge dei prezzi. L'Europa potrebbe perdere completamente l'accesso al petrolio e andare in crisi. Le carestie sono state un evento fisso nella storia europea, potrebbero ripetersi. Cose del genere: non piccoli cambiamenti, ma cambiamenti enormi.

Perché i paesi occidentali si sono impegnati in questa idea apparentemente controproducente? Forse c'è del metodo in questa follia. Mi vengono in mente alcune possibili spiegazioni:

1. I governi occidentali sono nelle mani di idioti che agiscono secondo il principio noto come "Mi sono buttato nudo in un cespuglio di rovi". Perché? Perché mi sembrava una buona idea per cogliere le more". Mettono in pratica idee che sembrano buone (danneggiare Putin), senza preoccuparsi delle conseguenze (distruggere l'economia europea).

2. Il tetto ai prezzi ha lo scopo specifico di aumentare i prezzi del petrolio. Costringerà i Paesi consumatori in Europa a passare dal petrolio russo, relativamente economico, al più costoso petrolio americano, che diventerà ancora più caro in un regime di quasi monopolio. Questo porterà enormi profitti ai produttori americani. Non dimenticate che le élite americane sono convinte che le risorse petrolifere statunitensi siano infinite, o quasi.

3. Il tetto ai prezzi è pensato come un modo per salvare l'industria statunitense del tight oil. Finora il tight oil è stato quasi un miracolo, riportando gli Stati Uniti a una posizione di dominio tra i produttori di petrolio. Ma ora si trova in difficoltà a causa del calo dei prezzi del petrolio sul mercato mondiale. Con un aumento dei prezzi del petrolio, l 'Europa finanzierà un nuovo ciclo di estrazione di tight oil negli Stati Uniti, mentre i profitti rimarranno negli Stati Uniti. Sembra diabolico, e forse lo è. Aggiungo che forse c'è un motivo per cui l'industria del tight oil è stata recentemente dichiarata "morta" dai media tradizionali. Chiamatemi pure teorico della cospirazione, ma questo articolo su "Oilprice.com" potrebbe avere avuto lo scopo di spaventare i produttori statunitensi e far loro accettare la rischiosa misura di vietare l'ingresso del petrolio russo nel mercato occidentale.

4. Potrebbe esistere una "forza nascosta", da qualche parte, che sta agendo con un piano a livello globale. Il piano prevede una riduzione forzata della produzione e del consumo di combustibili fossili per mitigare i danni generati dal riscaldamento globale o, forse più probabilmente, per lasciare l'energia alle élite togliendola ai pezzenti come noi. Gli eventi recenti, la crisi di Covid e la crisi russa, hanno entrambi l'effetto di impoverire alcuni dei principali consumatori di combustibili fossili, i cittadini occidentali della classe media, riducendo così il consumo complessivo. Il tetto al prezzo del petrolio russo potrebbe essere solo il primo passo di un nuovo piano che costringerà gli occidentali ad abbandonare definitivamente la loro dipendenza dai combustibili fossili, che lo vogliano o meno. Questa potrebbe non essere una cattiva idea per diversi motivi, ma come medicina è equivalente alla lobotomia o alla mastectomia radicale per i singoli esseri umani. Diciamo che è un tantino estremo come intervento.

È possibile che siano all'opera tutti e quattro questi fattori. In ogni caso, si sta materializzando una potente convergenza di interessi che probabilmente riuscirà a far accettare il tetto al petrolio russo a livello mondiale. Considerando la facilità con cui i cittadini europei sono stati indotti a credere alle cose più assurde nel corso degli ultimi due anni, è improbabile che capiscano cosa gli si sta facendo (e permettetemi di non usare le parole appropriate per il concetto). 

Non che i cittadini americani se la passeranno molto meglio: l'enorme trasferimento di ricchezza dall'Europa agli Stati Uniti andrà tutto nelle tasche degli oligarchi americani. Quanto ai governi europei, sono le strutture che dovrebbero opporsi a questo gigantesco trasferimento di ricchezza, ma sono al soldo di potenze straniere o comunque non possono opporsi. Quindi aderiranno con entusiasmo all'idea, perlomeno ufficialmente.

È questo che mostra la sfera di cristallo? Non necessariamente. Diciamo solo che ci sono ragioni per pensare che quello appena descritto sia uno scenario probabile. Poi, i piani meglio congegnati di uomini e topi alle volte non funzionano per niente. C'è un limite alla forza con cui si può stirare qualcosa qualcosa prima che vada in pezzi o si rivolti all'indietro e ci morda. I cittadini europei continueranno per sempre a essere felici di essere stuprati economicamente dagli Stati Uniti? Il futuro è sempre pieno di sorprese, ma la sfera di cristallo mostra sempre la stessa cosa: il mondo va dove ci sono i soldi.


 

lunedì 21 dicembre 2015

La “Malattia siriana”: ciò che il petrolio greggio dà, il petrolio greggio toglie

Da “Cassandra's Legacy” (She's back!). Traduzione di MR

Di Ugo Bardi




Qui di seguito sostengo che le origini del collasso siriano si devono cercare nel collasso economico generato dal graduale esaurimento delle riserve petrolifere siriane. Il petrolio greggio ha creato la Siria moderna, il petrolio greggio l'ha distrutta. Questo fenomeno può essere definito “Malattia siriana” e la domanda è: “qual è il prossimo paese che verrà contagiato?” 


Il petrolio greggio è una grande fonte di ricchezza per i paesi che lo posseggono. Ma è anche una ricchezza che si manifesta come un ciclo. Di solito, il ciclo copre diversi decenni, persino più di un secolo, quindi coloro che ci vivono potrebbero non cogliere per niente il fatto di essere diretti verso la fine della loro ricchezza. Ma il ciclo è più rapido e particolarmente visibile in quelle aree in cui la quantità di petrolio è modesta. Qui, ricchezza e miseria appaiono una di seguito all'altra in una drammatica serie di eventi.

venerdì 18 settembre 2015

Cambiamento climatico: ci salverà la crisi economica?

Dalla pagina FB di Bodhi Paul Chefurka. Traduzione di MR

Una delle cose interessanti del modo in cui l'economia funziona è che per fare un dollaro è sempre necessario consumare energia. E il consumo di energia (parlando globalmente) comporta il rilascio di CO2. Come abbiamo visto dall'inizio della Rivoluzione Industriale, man mano che l'economia mondiale cresce, le emissioni di CO2 seguono.

Il PIL mondiale potrebbe cominciare a scivolare? Questa probabilità sembra sempre maggiore. Le borse stanno crollando, man mano che i prezzi dei beni collassano, l'economia della Cina sta sprofondando, i rapporti del debito nel mondo stanno lievitando e le banche centrali sembrano aver finito gli strumenti incentivanti su larga scala. Ovviamente siamo a rischio di inversione economica globale, che potrebbe persino già essere in corso.

Sono stato per lungo tempo dell'opinione di recente condivisa dallo scienziato del clima Christopher Reyer, che è stato citato nell'articolo “Il collasso economico limiterà il cambiamento climatico, prevede uno scienziato del clima" quando dice, "Non siamo nemmeno sulla strada per i +6°C perché le economie collasseranno molto prima che ci arriviamo”.


Per cui ho deciso di fare un piccolo esperimento mentale. Cosa succederebbe alle emissioni di CO2 se il mondo entrasse in una depressione analoga alla Grande Depressione dei primi anni 30, ma in qualche modo più duratura? Come ogni buono scienziato amatoriale, comincio dichiarando le mie ipotesi in anticipo.

Ho cominciato con l'ipotesi chiave che l'intensità di CO2 del PIL (la quantità di CO2 emessa per ogni dollaro di PIL) rimarrebbe costante nel periodo della depressione, il che significa che il declino percentuale delle emissioni di CO2 sarebbe lo stesso di quello del PIL.

Quell'ipotesi iniziale si basa sull'ipotesi sottesa: i fattori che in passato hanno ridotto l'intensità di carbonio del PIL – come l'accumulo di energia rinnovabile e il passaggio a livello mondiale verso le economie dei servizi – non saranno più in gioco. Gli investimenti in nuovi impianti di produzione di energia si fermeranno, in quanto non serviranno più e il mondo sarà troppo occupato a cercare di sopravvivere per preoccuparsi di creare più posti di lavoro in servizi finanziari e nell'arredamento di interni.

Lo scenario si dipana così: ho immaginato che il mondo cade in una depressione che inizia praticamente come la Grande Depressione, con tre anni di scivolamento del PIL a doppia cifra. Questo salto è seguito da una tentata ripresa che recupera un po' di campo economico per un anno o due, dopo di che si insedia una discesa economica più graduale ma di maggior durata, che si dipana man mano che si avvicina il 2030.

Nella mia immaginazione il ripido scivolamento economico inizia il prossimo anno, con tre anni consecutivi di declino del PIL mondiale del 11% – più o meno quello che il mondo ha vissuto dal 1929 al 1932. Quei declini sono seguiti da un anno di ripresa e da un anno di paralisi da far strabuzzare gli occhi. Dopo il 2020, comincia lo scivolamento più lungo e lento. Comincia col 5% all'anno e si riduce gradualmente a declini del 2% all'anno verso la fine del decennio. Ogni anno, le emissioni di CO2 scendono della stessa percentuale del PIL.

Ecco come si presenta l'evento in numeri:


Nel 2030, il mondo emetterebbe solo la metà del CO2 che emette oggi – circa la stessa quantità che emetteva nel 1977. Ciò avverrebbe senza alcuna necessità di investimenti in energie rinnovabili o nucleare e senza la necessità di alcun accordo internazionale. Naturalmente, a quel punto il PIL mondiale sarebbe declinato a sua volta della metà...

Ora, questo non è un piano o una proposta. E' solo una descrizione di quello che accadrebbe durante un declino economico simile a quello che abbiamo già vissuto in un passato non troppo lontano.

A differenza delle conferenze internazionali sul clima “estendi-e-fingi”, o le pie illusioni dei sostenitori delle energie rinnovabili, questo processo è garantito che funzioni. Ed un rapido sguardo alle borse di azioni, obbligazioni e beni proprio in questo momento suggerisce che le possibilità che questo accada in realtà sono piuttosto buone.

Forse c'è qualche speranza, dopotutto, per la biosfera...


venerdì 5 settembre 2014

Limiti dello sviluppo: ma davvero era possibile che andasse diversamente?

Jacopo Simonetta

Per quasi 50 anni abbiamo ripetuto fino alla nausea che il nostro modello di sviluppo era intrinsecamente suicida e che, se non lo si fosse cambiato in tempo, avrebbe condotto l’umanità ad una catastrofe senza precedenti.  Qualcuno ci ha creduto e molti no.

Di fatto, siamo in orario sulla tabella di marcia.

Ed ora che siamo sommersi da notizie che confermano molte delle più funeste previsioni ci pervade un’ansia crescente che facilmente sfocia in angoscia, panico, depressione o ferocia, a seconda dei casi.
Secondo me, ciò dimostra almeno due cose:

   1- Il sistema socio-economico globale è davvero una struttura dissipativa complessa, vale a dire un sistema termodinamico. Dovrebbe essere una banalità, ma chi pratica un minimo di letteratura economica e politica scoprirà che la maggior parte delle persone ignorano o addirittura negano questo semplice fatto.

   2- Il sistema socio economico globale è totalmente acefalo. Pare strano, ma ad onta di un’intelligenza infinitamente superiore a quella di qualunque altro animale mai esistito, l’uomo ha agito sostanzialmente  come avrebbe fatto se fosse stato privo di qualunque informazione e volontà propria. In altre parole, la sommatoria di parecchi miliardi di cervelli è risultata zero.

Se poniamo una muffa in una scatola Petri con un substrato diversificato, questa comincerà a crescere consumando prima le risorse di migliore qualità e via via le altre.   Nel frattempo, evolverà, “cercando” di sfruttare sempre meglio il sempre meno che le rimane, finché digerirà sé stessa ed Amen.

L’umanità nel suo pianeta ha fatto e continua a fare sostanzialmente questo.  

Fortunatamente, la Terra è un sistema aperto per cui non raggiungeremo mai l’equilibrio termodinamico (alias scomparsa di ogni struttura, vivente o meno) cui ci si avvicina molto nella scatola Petri, ma ciò non toglie che se sostituiamo la parola “tecnologia” con quella “enzimi” la nostra strategia rimane sostanzialmente identica a quella della muffa.

Un fatto che mette a disagio coloro che, come me, hanno predicato invano per decenni.   Che cosa dovremmo fare, da ora in poi?

Molti continuano a mettere in guardia contro un possibile collasso, tacendo pudicamente il fatto che è già iniziato.

Altri, come me, si vanno a rileggere i “sacri testi” della gioventù (Meadows, Georgescu-Roengen, Galbraith, Catton, ecc.) e si domandano: ma davvero era possibile che andasse diversamente?

Autori di vaglia cercano la risposta chi nel ruolo antropologico e simbolico della “macchina”, chi rintracciando le radici della cultura moderna fin nella città medioevale, chi analizzando la termodinamica del sistema produttivo globale, chi studiando il sistema di “pompe di soldi” che muove la finanza mondiale.

Molto più semplicemente, ho fatto alcune riflessioni sull'aspetto demografico della questione, per la semplice ragione che all'atto pratico, sovrappopolazione significa: disoccupazione, deterioramento del territorio e delle risorse, crisi dello stato sociale... Vi ricorda niente?  

Fin da quando, negli anni ‘70,  il problema divenne evidente, l’attenzione fu da subito concentrata sulla necessità di limitare le nascite. In questo modo, si pensava, la crisi di sovrappopolazione sarebbe stata grave, ma passeggera e la fine della crescita demografica avrebbe fermato anche la crescita economica, senza bisogno di dichiararlo troppo apertamente. Magari verso la fine del XXI secolo si sarebbe potuto raggiungere una situazione  “sostenibile”.

Ma non è andata così.
World's mortality rate

 Years
Mortality
Rate %
1950 - 1954
1.97
1955 - 1959
1.74
1960 - 1964
1.56
1965 - 1969
1.34
1970 - 1974
1.16
1975 - 1979
1.09
1980 - 1984
1.03
1985 - 1989
0.96
1990 - 1994
0.94
1995 - 1999
0.90
2000 - 2004
0.88
2005 - 2010
0.85
2011 - 2012
0.83
Dati UN
Un po’  perché i tassi di natalità non sono scesi sufficientemente nella maggioranza dei paesi, ma soprattutto perché la strabiliante crescita demografica della seconda metà del XX° secolo è stata dovuta solo in piccola parte alle nascite.   In gran parte è dipesa, invece, da una spettacolare diminuzione della mortalità; a sua volta conseguenza di un’altrettanto spettacolare miglioramento nella qualità e quantità dei servizi sanitari.
E l’industria sanitaria è forse la più energivora ed inquinante che esista.   Non solo per i servizi che eroga, ma anche per l’apparato di ricerca, sviluppo e produzione che coinvolge massicciamente l’intera società.   Un immensa “macchina” che per vivere e progredire necessita di un substrato socio-economico capace di fornire un flusso continuamente crescente di risorse.  In altre parole, solo il tipo di  crescita economica ed industriale che effettivamente c’è stato poteva consentire un tale progresso della medicina.   Chi, onestamente, sarebbe stato disposto a rinunciarci? 

Passando dal passato al futuro, può forse esserci di aiuto osservare ciò che è accaduto in Europa orientale, ad esempio in Bulgaria.
A partire dai primi anni ’70, il progressivo peggioramento dell’economia e, di conseguenza, dei servizi socio-sanitari e dell’alimentazione, ha causato un progressivo incremento della mortalità, culminato con il collasso delle strutture statali negli anni ’90.   Nei decenni successivi la situazione socio-economica è migliorata e la mortalità diminuita.   E’ interessante notare come vi sia una differenza importante fra uomini e donne, causata dalla molto maggiore incidenza che le morti per violenza, alcolismo, incidenti e suicidio hanno fra i maschi.
Comunque, mentre la mortalità complessiva saliva, la natalità scendeva, per poi tornare a salire quando la situazione è migliorata, ma restando sotto il livello precedente il 1990.   Inoltre, essendo un paese povero e guardingo delle sue frontiere, la Bulgaria ha un tasso di immigrazione negativo. 

Ne consegue che, dal 1990 ad oggi, la popolazione bulgara è in costante diminuzione, contrariamente a quella italiana che, nello stesso periodo, è aumentata di 4 milioni di persone.

Perché è interessante questo? Perché, man mano che la crisi economica peggiorerà e che lo stato taglierà i servizi socio-sanitari, è probabile che succeda qualcosa del genere in tutta Europa. Del resto, in Grecia abbiamo già un incremento della mortalità, associato ad un calo della natalità. Non è bello dirlo, ma questo è uno dei pochi spunti all'ottimismo che la scienza odierna ci fornisce. Quando infatti una popolazione qualsiasi supera la capacità di carico del territorio, la sua crescita può ancora continuare, ma a costo di degradare progressivamente il territorio.   In altre parole, più si rimanda la “resa dei conti”, più questa sarà salata.

E quando la popolazione comincia a diminuire, ci sono sostanzialmente due alternative possibili:
La prima, è che la popolazione diminuisca in modo parallelo o più lento, rispetto al degrado delle sue risorse vitali.   In questo caso non si torna mai ad un equilibrio e si giunge alla distruzione delle risorse ed all’estinzione della popolazione.
La seconda, è che la popolazione diminuisca più rapidamente delle risorse.   In questo caso, dopo un certo tempo, si ritrova un equilibrio.

Purtroppo, la prima ipotesi figura nel celebre modello “World3” che, finora, si è dimostrato spaventosamente affidabile. Ma World3 incorpora fra i suoi algoritmi la teoria della “transizione demografica”  secondo la quale al peggiorare delle condizioni di vita dovrebbe far riscontro un aumento della natalità. L’esperienza reale e recente dell’Europa orientale, ad oggi, è diversa e ci da speranza, perlomeno per i nostri nipoti.  





venerdì 4 luglio 2014

Il governo Renzi continua a sbagliare tutto: Le rinnovabili ci fanno risparmiare!

Da"Qualenergia.it". Il governo Renzi cerca di abbassare i costi dell'energia, ma se la prende con il bersaglio sbagliato: le rinnovabili ci fanno risparmiare!


Il mistero del risparmio generato dalle rinnovabili che non arriva in bolletta

Eolico e fotovoltaico sono sul banco degli imputati per il peso che hanno sugli oneri di sistema. Ma stanno anche facendo scendere consistentemente il prezzo dell'elettricità in Borsa. Questo calo però non si riflette in bolletta: la componente energia (PE) è superiore al PUN di circa 20 €/MWh. Abbiamo cercato di capire dove si perde questo risparmio, perché e chi ne beneficia.




Secondo un calcolo della società di consulenza eLeMeNS, per ogni punto percentuale aggiuntivo di eolico e fotovoltaico nel mix elettrico, dato che questi producono a costi marginali nulli, il prezzo dell'energia in Borsa si abbassa di 1 €/MWh.  Senza sole e vento nel 2013 avremmo avuto un PUN (prezzo unico nazionale) di 7,2 €/MWh più alto. Le rinnovabili, assieme ad altri fattori come il calo della domanda, come ben documentato da vari studi (qui l'ultimo, del CNR), stanno facendo calare il prezzo dell'elettricità sul mercato del giorno prima. Peccato che, nonostante il sostanzioso decremento del prezzo sul mercato spot sia in corso da tempo, le nostre bollette restino invariate. Dove si perde questo risparmio potenziale?

La colpa non è solo degli oneri di sistema, da tempo sul banco degli imputati, né degli altri costi necessari a mantenere il sistema elettrico. La componente A3, infatti, con la fine degli incentivi al FV ha praticamente arrestato la sua crescita e i costi di dispacciamento, nonostante siano cresciuti nell'ultimo trimestre, hanno subito un calo netto rispetto all'estate scorsa. E' proprio la componente energia, la PE, che non sta riflettendo il calo dei prezzi di Borsa.

Il grafico sotto (cortesia di Dario di Santo di Fire, che su queste pagine aveva già denunciato il fenomeno) spiega meglio di mille parole: la fascia gialla è la differenza tra PUN e PE e come si vede si allarga dal 2009 in poi. L'ultimo aggiornamento delle tariffe registra una PE in vigore dal 1° luglio a oltre 69 €/MWh, circa 22 euro in più rispetto al PUN medio dell'ultimo mese, sui 47 €/MWh. Dove finiscono quei circa 20 € a MWh che potremmo risparmiare, godendo così di uno dei benefici prodotti da eolico e fotovoltaico?


Una parte di questo scollamento può essere spiegata dal fatto che PUN e PE sono sostanzialmente diversi: a differenza del PUN, la PE è maggiorata delle perdite di rete, circa il 10%; incorpora il profilo di consumo del cliente domestico, concentrato nella fascia diurna quando i prezzi sono più alti, e, ancora, la PE contiene un meccanismo di recupero degli scostamenti del trimestre precedente, spalmati sui due trimestri successivi. Queste differenze, però, ovviamente, ci sono sempre state, mentre, come vediamo dal grafico, la forbice tra i due valori ha cominciato a manifestarsi in maniera così consistente solo negli ultimi anni e precisamente dal 2009 in poi. Dunque la domanda resta: dove finiscono quei soldi?

La risposta viene da un'altra differenza tra PUN e PE: il primo è una media dei prezzi sul mercato spot del giorno prima (MGP), la PE invece riflette il mix di acquisto dell'Acquirente Unico (AU), il “grossista pubblico” che compra l'energia per conto dei clienti del mercato tutelato. L'AU compra circa il 40% dell'energia sul mercato spot e il resto sul mercato a termine: e proprio qui sta il motivo della 'voragine' che ultimamente si è aperta tra PUN e PE.

Una spiegazione confermata anche dall'ultimo comunicato AEEGSI sull'aggiornamento tariffe in cui si legge che "il sensibile calo (-7,1%) della materia prima all’ingrosso – che rappresenta circa il 50% della bolletta - è stato in parte compensato dalle coperture assicurative contro il rischio di rialzo dei prezzi dei contratti di approvvigionamento dell’Acquirente Unico."

Come confermano a QualEnergia.it gli stessi rappresentanti dell'AU, infatti, negli ultimi tempi i contratti conclusi dall'Acquirente sui mercati a termine si stanno regolarmente rivelando 'lunghi'. Ciò vuol dire che comprando l'energia in grande anticipo questa viene a costare di più. Ad esempio, nel 2013 si è acquistata energia per il 2014 a 10 (per usare numeri a caso), mentre il valore del mercato spot nel 2014 è poi sceso a 7. “Nel 2009 (anno in cui è aumentato il divario, ndr) i contratti sembravano buoni, ma evidentemente si sono verificate dinamiche non previste”, ci spiegano dall'AU.

Ovviamente in tutto ciò c'è qualcuno che ci guadagna; cioè chi vende a termine, che intasca la differenza, mentre ci rimettono i consumatori

Danneggiati non sono solo gli utenti del mercato tutelato, riforniti dall'AU, ma anche quelli del mercato libero. Le offerte del mercato libero, infatti, si adagiano in genere sul benchmark dei prezzi fatti dall'AU, rimanendo solitamente più alte. 

Da dati dell'Autorità (riferiti al 2011) in media sul mercato libero i consumatori pagano l'energia il 12,8% più cara che nel regime di maggior tutela.

Insomma, come minimo c'è un'inefficienza del mercato a lungo termine e/o del modo in cui l'AU fa gli acquisti. “Il mercato a termine sta mostrando di non essere in grado di prevedere l'evoluzione del PUN. O a pensar male, fa finta di non essere in grado di prevederla tale evoluzione. Ma questo lo dovrebbe eventualmente chiarire l'Antitrust”, ci spiega una fonte interna all'AU che non vuole essere citata. Che sia il caso di chiedere al Garante per la Concorrenza? Dall'AGCM ufficialmente non si pronunciano, ma ammettono che c'è “un'inefficienza nei mercati a termine”, chiarendo che un'eventuale segnalazione dovrebbe arrivare dall'AU.

Possibile che un soggetto così importante come l'AU non riesca a farsi valere sui prezzi a termine? "Sì, anzi, proprio perché compra tanto è svantaggiato", ci spiega Dario Di Santo di Fire (come altri analisti sentiti). “Non è in una posizione di forza quando compra sul mercato a termine - continua Di Santo - perché dovendo comprare volumi molto grandi perde potere contrattuale: ha bisogno dell'energia di quasi tutti i fornitori”.

Le cose andrebbero meglio se l'AU facesse gli acquisti in maniera diversa? In effetti non è scritto da nessuna parte quanto debba comperare sul mercato spot e quanto su quello a termine. Comprare sui mercati a termine però, ci fanno notare dall'Acquirente, è una sorta di assicurazione che garantisce i consumatori da eventuali rialzi dei prezzi futuri. “Quando il PUN risalirà la forbice si invertirà e la componente PE sarà inferiore al PUN”, ci rispondono.

Come evolverà il PUN però è difficile da prevedere e l'eventualità che salga non è affatto più probabile rispetto a quella che scenda ancora. Da una parte abbiamo fattori che dovrebbero far proseguire il calo, cioè la penetrazione delle rinnovabili (in Italia comunque nettamente in frenata), la situazione di overcapacity (con la domanda che anche nel più ottimistico degli scenari di Terna non tornerà ai livelli di 5 anni fa prima di ulteriori 5 anni) e l'introduzione del capacity payment (che remunerando a parte gli impianti più costosi dovrebbe prevenire aumenti). Dall'altra c'è la grossa incognita del prezzo del gas che ha un notevole impatto sulla formazione dei prezzi.

Ma nel frattempo, finché abbiamo un PUN di oltre 20 euro più basso di quanto paghiamo la materia prima in bolletta (PE), come potremmo recuperare quel risparmio perduto? L'AU, ci spiegano, non potrebbe nemmeno vendere l'energia a termine per riacquistarla sul mercato spot a un prezzo minore, perché questo sarebbe un comportamento speculativo e “l'obiettivo dell'AU non è ottenere il minor prezzo possibile e dunque attirare clienti, ma garantire una fornitura efficiente a chi non è ancora passato al mercato libero”. Anche dal punto di vista del rischio, per minimizzarlo, si fa un così ampio ricorso ai mercati a termine, ci spiegano: l'AU deve essere molto più cautelativo rispetto agli operatori del mercato libero.

E qui sorge una domanda: abbiamo capito perché l'Acquirente ha un approccio prudente e non cerca il prezzo più basso possibile, ma perché nemmeno gli operatori del mercato libero, che potrebbero farlo, si assumono questi rischi e cercano di portare in bolletta i risparmi che si potrebbero ottenere dal prezzo di Borsa attuale? Sul mercato libero, come detto, l'energia si paga in media di più e le offerte sembrano quasi assumere come floor price il prezzo dell'AU. Fonti interne all'AU ci parlano di un atteggiamento “implicitamente collusivo” da parte degli operatori del mercato libero.

Insomma, la strategia dell'AU, basata in gran parte su acquisti a termine, attutisce gli effetti in bolletta delle dinamiche del mercato elettrico, nel bene e nel male. Nella situazione attuale di PUN basso questo fa sì che, per garantire i consumatori da possibili aumenti futuri, i risparmi dati dalla rinnovabili vengano intascati da altri soggetti, anziché andare a finire in bolletta.

Ci sarà un modo per evitare che questo accada pur continuando a garantire la tutela dei consumatori dal rischio? Quando si parla di caro-energia, anziché accanirsi sempre sul peso delle rinnovabili sulla componente A3, sarebbe il caso di affrontare anche questa questione.

martedì 24 giugno 2014

Il declino dell'economia industriale italiana






L'economia industriale italiana sta venendo stritolata dall'alto costo delle materie prime. A questo si aggiunge il peso di una burocrazia spaventosa che è l'emblema moderno della teoria di Tainter che vede il crollo delle civiltà come dovuto all'eccessivo costo delle loro burocrazie. Il risultato è un economia italiana che si fa sempre più virtuale, sempre più eterea, sempre più orientata verso prodotti di lusso nella moda, nel turismo o nel settore alimentare. E' un'economia fragile, soggetta alla variabilità dei gusti planetari e che crea ricchezza solo per pochi.

In questo post, Miguel Martinez dal blog "Kelebek" coglie bene le tendenze del momento.


Aura d’Italia

Ogni tanto, mi viene da scrivere una riflessione sperimentale, dove semplifico molto e compio sicuramente errori, ma mi serve per mettere in ordine esperienze e idee.

Quindi non prendete troppo alla lettera ogni parola, cercate di cogliere il senso generale.

Innanzitutto, la crisi sta cambiando il volto dell’economia italiana. Tra tante altre realtà, ha messo in crisi i pilastri della sinistra realmente esistente, istituzioni come la Coop e il Monte dei Paschi di Siena, con il loro contorno politico.

Contemporaneamente, diventa centrale la commercializzazione dell‘Aura d’Italia.

Aura di di Estrosi Creativi che Coniugano Modernità e Tradizione nel Solco tracciato da Leonardo e Michelangelo… con due aspetti paralleli e inseparabili: turismo e moda.

Il grosso ricade su tre luoghi-cartolina che tutto il mondo riconosce, cioè Venezia, Firenze e Roma.

Ma Roma è troppe cose insieme, Venezia è quasi disabitata; per cui nei fatti, questa Aura si concentra soprattutto a Firenze, che non è solo luogo turistico, ma centro simbolico del sistema-moda planetario (anche se i centri economici sono ben altri, da New York a Milano).

Questo fatto ci permette di capire come abbia fatto il sindaco di Firenze a scardinare in pochi anni l’intero sistema del PD e impadronirsene, per poi passare a diventare addirittura il politico-protagonista di tutta l’Italia.

Tenendo presente, però che il vero potere non ama mai farsi vedere, e quindi non bisogna insistere troppo sull’esuberante personalità dell’ex-sindaco.

L’industria dell’Aura è l’inevitabile accompagnamento dell’immensa divaricazione della ricchezza mondiale: il settore del lusso, ci dicono, è l’unico che non conosce crisi. E questa industria ha come base, non l’accumulazione di piaceri, ma una disperata gara di prestigio tra uomini che devono dimostrare la propria potenza attraverso una serie di gesti prefigurati di spreco su scala gigantesca.

Allo stesso tempo, il mercato dell’Aura riflette il generale narcisismo, la smaterializzazione e la finta intimità dell’era della Jeune Fille.

Non è altro che la pubblicità di se stessa, e come ogni pubblicità, è quindi giovane, bella, seducente, entusiasmante.

Il mercato della moda, a differenza di quello turistico, genera ben poco di ciò che una volta si chiamava “lavoro”: gli scaricatori stagionali a Pitti Moda, il designer di gioielli, la modella eccezionale, il buttafuori sono figure numericamente irrilevanti.

Ma questo mercato muove capitali enormi, in grado di condizionare la politica, la cultura, i media… Nulla può fermare le cifre che i signori del lusso sono in grado di schierare sul campo. Cifre che ovviamente non hanno nulla a che fare con “l’Italia” o con “Firenze”, visto che scorrono dentro il mondo parallelo del denaro virtuale planetario.

Il mercato dell’Aura genera e rimodella l’Aura stessa. Decide, ad esempio, che il museo/monumento, invece di essere luogo in cui si può scoprire il proprio territorio, deve diventare sede di “eventi” mediatici, un continuo spettacolo a sostegno dell’industria dell’Aura (Pucci riveste il Battistero, Stefano Ricci decide l’illuminazione del Ponte Vecchio, Ferragamo prende in mano gli Uffizi…).

Il mercato dell’Aura deve vendere ciò che la gente già conosce, e quindi se riduce l’Italia a Firenze/Venezia/Roma, riduce a sua volta Firenze a due o tre monumenti facilmente riconoscibili in tutto il mondo. Il resto della città può fare da dormitorio, e i brandelli di centro non ancora distrutti possono diventare valvole di sfogo per la parte bassa dell’industria turistica.

Ecco che i punti chiave diventano modello di città, turismo, moda, gentrificazione, patrimonio, urbanistica, paesaggio.


lunedì 2 giugno 2014

Ma siamo sicuri che lo sviluppo industriale porti benessere?


 



Di Jacopo Simonetta

Che lo sviluppo industriale porti benessere è uno degli assunti basilari del nostro modo di pensare e di operare.   Come potrebbe essere altrimenti?   Non è forse vero che lo sviluppo industriale ha tirato fuori dalla miseria le masse europee?   Ed allora perché non dovrebbe fare altrettanto negli altri paesi?
Una risposta istintiva potrebbe essere: perché lo abbiamo già fatto noi, ma sarebbe una risposta molto parziale ed in parte sbagliata.   Prendiamo quindi le cose dall’inizio.

Un fatto che nessun economista nega, ma che la grande maggioranza di loro ignora bellamente, è che i processi industriali sono processi fisici e qualunque processo fisico di dimensione compresa fra l’atomo e la galassia è soggetto alla leggi della termodinamica.   Molto sopra e molto sotto queste misure forse no, ma qui non ci interessa.

In sostanza, per realizzare qualunque oggetto si parte da risorse (viventi o meno) e vi si applica dell’energia di alta qualità (generalmente carburanti) per estrarla e concentrarla, poi vi si applica nuovamente dell’energia (spesso elettricità) per trasformare i materiali dandogli una forma precisa ed ordinata.   Poi si applica nuovamente energia per assemblare i pezzi in prodotti finali che dopo un periodo più o meno lungo di uso diventano rifiuti.

Nelle filiere reali i passaggi possono essere numerosissimi, ma in ogni caso, al ogni passaggio si applica un’energia (E) per dividere una parte del materiale che diventa qualcosa di più concentrato e formato (X).   Contemporaneamente, un’altra parte di materiale (spesso maggiore)  diventa invece qualcosa di più disperso e disordinato (Y).   Parte dell’energia applicata viene incorporata nel prodotto X e nel rifiuto Y; parte viene invece dispersa sotto forma di calore, rumore, ecc. (Z).    Quindi abbiamo due cose in entrata (energia e materie prime) e tre cose in uscita: un prodotto X con un’entropia inferiore al materiale di partenza; un rifiuto Y ed un’energia Z che, viceversa, hanno entrambi un’entropia superiore sia al materiale di partenza che all’energia applicata.  





LA COSA FONDAMENTALE DA RICORDARE SEMPRE E’ QUESTA:

L’entropia di Y+Z è sempre maggiore dell’entropia di E+X

Dunque qualunque processo produttivo in realtà non produce proprio niente.   Al contrario, dissipa energia e genera rifiuti per trasformare una piccola parte della materia in oggetti d’uso da cui spesso dipende la nostra vita.  

Una parte dei rifiuti possono essere riciclati, ma in ogni caso il loro riutilizzo è parziale e richiede la dissipazione di ulteriore energia, sia pure in misura minore all’estrazione di risorse primarie.    Il riuso ed il riciclaggio, dunque rallentano l’accumulo di alta entropia, ma non possono fermarlo; men che meno invertirlo.
In sintesi, la produzione industriale raccoglie bassa entropia dove è disponibile al minor prezzo e la concentra in determinate parti del sistema (impianti industriali, depositi, prodotti, infrastrutture, prodotti, ecc), mentre scarica l’alta entropia che produce (rifiuti e calore) su tutto il resto e questo è qualcosa di altrettanto inevitabile della legge di gravità.   

Una faccenda apparentemente banale, ma da cui dipendono i destini dei popoli e dell’intero pianeta.

In ultima analisi, l’industria è infatti un gioco a somma negativa in cui chi ha le manifatture vince e chi ha le cave e le discariche perde; e perde più di quanto gli altri vincano, cosicché il pianeta nel suo complesso perde sempre e comunque.
Ma se non possiamo evitare di danneggiare qualcuno, entro certi limiti possiamo almeno scegliere chi.   Ad esempio, la ripartizione dei vantaggi e degli svantaggi può essere fatta nello spazio (regioni che si arricchiscono a scapito di altre), nel tessuto sociale (classi che migliorano il loro status ed altre che lo peggiorano) oppure nel tempo (generazioni vincenti a scapito dei loro discendenti).   Oppure si possono ideare strategie miste fra queste;  l’unica cosa che non possiamo fare è evitare che qualcuno paghi per chi guadagna.

Visto in quest’ottica , il suicidio commesso da EU ed USA con la delocalizzazione delle manifatture e l’esportazione delle tecnologie è particolarmente strabiliante, ma c’è un aspetto ancora più importante.
Ciò che distingue la Terra da tutti gli altri pianeti conosciuti è che ha un livello di entropia inferiore e questo è dovuto esclusivamente alla presenza della Biosfera.   E’ infatti la presenza di strutture viventi estremamente organizzate e complesse che assicura che la Terra mantenga caratteristiche compatibili con la vita.   La Biosfera è il’unica cosa esistente che è in grado di “pompare” l’entropia al contrario (naturalmente a costo di scaricarla nello spazio circostante, ma non risulta che la galassia ne risenta).

In estrema sintesi, le piante concentrano l’energia e gli animali la disperdono, ma per miliardi di anni c’è stato un lieve saldo attivo che si è tradotto nell’accumulo di entropia in forma di biomassa e, soprattutto, di carbone, petrolio e gas.   Questi giacimenti che chiamiamo “combustibili” erano in effetti quella cosa che la Biosfera aveva sepolto realizzando le  condizioni ambientali in cui la nostra specie e quasi tutte quelle oggi viventi si sono evolute.   Un autentico “vaso di Pandora” che abbiamo scoperchiato e vuotato quasi per metà.

Già lo sterminio della mega-fauna (a partire dal tardo paleolitico) e la conversione degli ecosistemi naturali in ecosistemi agricoli (a partire dal neolitico) e hanno cambiato considerevolmente il mondo, ma senza giungere a modificare sensibilmente l’equilibrio entropico planetario.   Neppure lo sviluppo industriale ha avuto impatti globali avvertibili finché è rimasto un fenomeno localizzato all’Europa occidentale, ma via via che si è diffuso e potenziato ha finito con l’alterare radicalmente gli equilibri termodinamici dell’intero pianeta.

Si può molto discutere se e quanto l’industria danneggi questo o quel popolo, classe o generazione umana, ma nessuno può negare che in fondo alla catena c’è sempre e comunque un perdente: la Biosfera (di cui siamo comunque parte integrante).

Il risultato è che da circa 2 secoli l’entropia planetaria ha cominciato a crescere e lo ha fatto in modo sempre più rapido.   L’effetto finale del “global warming” è proprio questo: ostacolando lo scarico di alta entropia nello spazio, la fa aumentare sulla Terra ed è questa una notizia che dovrebbe gettare nel panico ogni singolo abitante di questo pianeta perché significa che la nostra unica casa sta bruciando e che continuerà a farlo ancora molto a lungo.   Possiamo sperare che il processo sia reversibile nel giro di qualche milione di anni, ma non ci possiamo assolutamente contare.   

E dunque?   Ridurre la produzione industriale parrebbe l’unica cosa lungimirante da fare, ma non possiamo nasconderci che ciò avrebbe effetti devastanti sulle economie, generando numeri incalcolabili di disoccupati e di affamati, con conseguenze sociali facili da prevedere.   Per non parlare del fatto che chi si deindustrializza si pone  alla mercé dei paesi industriali circostanti; una lezione che stiamo forse imparando.

Mantenere la produzione industriale riducendo i flussi di materia ed energia parrebbe una strategia molto promettente, ma in pratica non ha mai funzionato: il miglioramento tecnologico fa aumentare i consumi e, generalmente, anche la popolazione.

Dunque, a scala nazionale e regionale avremmo interesse a sviluppare una nuova fase industriale (il più possibile basata sul riciclaggio e sulle energie rinnovabili), mentre a livello globale è di vitale importanza ridurre drasticamente e molto rapidamente la produzione industriale.   Un bel dilemma!

Ci troviamo ad un bivio: da una parte c’è l’estinzione, dall'altra la disperazione; speriamo di fare la scelta giusta” Woody Allen

Non per caso la divinità di "ultima istanza" rimasta nel vaso di Pandora è proprio la Speranza.