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sabato 6 novembre 2021

Ma gli Ambientalisti Mangiano i Bambini?


à?Mentre è in corso la COP26 a Glasgow, mi sembra il caso di pubblicare una piccola riflessione sugli errori del passato, che sono stati molti e che sembra difficile che la COP possa rimediare, ma chissà? Per il momento, continuiamo a comportarci come gli antichi Maya che pensavano di poter risolvere i loro problemi con cose del tutto inutili come i sacrifici umani. 
  


Una risposta al Sig. Cortesi


Vi ricordate il film “Apocalypto” del 2006? Fra le altre cose, faceva vedere i sacrifici umani degli antichi Maya. Si estraeva il cuore dal petto di un poveraccio ancora vivo e poi si buttava giù il corpo per i gradini della piramide. Poi, i sacerdoti si mangiavano il cuore fatto alla griglia. Sembra che si facesse perché che “altrimenti il sole non sarebbe sorto il giorno dopo.” Forse è una leggenda, ma c’è chi dice che è vero.

Ora, non è che voglio dire che i nostri ambientalisti fanno i sacrifici umani (l’accusa di “mangiare i bambini” si usava una volta contro i comunisti, ma è un po’ passata di moda, a parte che Vladimir Putin pare lo faccia come hobby). Però, come i Maya, molti ambientalisti sono una bella illustrazione di un detto che si attribuisce a Albert Einstein: “La definizione di insanità mentale è fare la stessa cosa molte volte di seguito e aspettarsi risultati differenti.

Mi posso immaginare che i sacerdoti Maya reagissero alle varie carestie, pestilenze, e guerre dicendo, “E’ perché non abbiamo fatto abbastanza sacrifici umani. Dobbiamo farne di più!” E così gli ambientalisti, visto che sono trent’anni che si fanno esortazioni a ridurre le emissioni senza vedere alcun effetto, reagiscono dicendo “non abbiamo esortato abbastanza. Dobbiamo esortare di più!

Un buon esempio di questo atteggiamento è un post recente di Fabrizio Cortesi sul “Fatto” https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/08/27/clima-la-prima-cosa-da-combattere-e-lo-spreco-di-energia-e-consumi/6301840/ che critica un mio post precedente dove sostenevo che bisogna cambiare strategia per combattere il cambiamento climatico: bisogna smettere di esortare al risparmio e concentrarsi invece sulla produzione di energia rinnovabile.

Cortesi risponde con un post apprezzabile per la forma che è – nomen omen – cortese. Di certo non come il marasma di insulti che arrivano di solito nei commenti ai post sul “Fatto”. Però, mi dispiace doverlo dire, ma non ci siamo proprio. E’ un post che potrebbe essere stato scritto vent’anni fa e che dimostra come molti degli ambientalisti nostrani non si siano minimamente aggiornati sui progressi della tecnologia negli ultimi anni.

Quando Cortesi parla dell’ “illusione delle energie rinnovabili,” su cosa di basa? Soltanto su studi obsoleti che, purtroppo, hanno lasciato il loro impatto in una certa frazione del mondo ambientalista, al punto che continuano a ripeterne le conclusioni senza rendersi conto che, come si suol dire dalle parti di Amsterdam, “ne è passato di vento attraverso le pale.”

Non è più vero che l’energia rinnovabile è un “palliativo” o solo “greenwashing” come sostiene Cortesi. L’energia rinnovabile è un mezzo di produzione di energia concorrenziale a tutti gli effetti con tutti i metodi di produzione basati sui fossili. Ed è veramente “rinnovabile” perché l’energia che producono gli impianti durante la loro vita operativa è almeno 10 volte (e anche molto di più) superiore a quella necessaria per costruirli e gestirli. Su questo punto potete leggervi questo articolo di Marco Raugei, ricercatore italiano fra i più quotati a livello globale in questo campo: https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0360544209000061. E’ solo uno dei tanti articoli che dimostrano questa capacità delle rinnovabili.

Quanto alla necessità di risorse minerali, non è vero che sono una barriera insormontabile. Le rinnovabili moderne hanno bisogno soltanto di materiali abbondanti sulla crosta terrestre (silicio e alluminio) oppure di facilmente riciclabili (per esempio, le terre rare o il litio). Abbiamo tutto quello che ci serve per rimpiazzare i fossili – quelli si che sono limitati dalla disponibilità finita di risorse!

Non voglio farla lunga con questa risposta. Mi limito a riassumere il mio ragionamento che si basa sul fatto che cercare ottenere qualcosa a furia di esortazioni semplicemente non funziona. Usare decreti e proibizioni è ancora peggio perché è costoso e genera forti resistenze. Viceversa, non c’è bisogno di imporre le energie rinnovabili per decreto: funzionano e producono profitti, quindi, c’è un incentivo economico a installarle. Se non gli mettiamo i bastoni fra le pale con i vari comitati o con la burocrazia distruttiva, le vedremo crescere rapidamente e sostituire i fossili. Altrimenti, rischiamo veramente di fare la fine dei Maya.




sabato 8 febbraio 2020

Ulteriori riflessioni sulla Sostenibilità


Autore : Bohdi Paul Chefurka . 30-11-2019



La caratteristica fondamentale della sostenibilità non è quante persone possono essere supportate dal pianeta in un dato momento. Piuttosto, è il numero di umani che potrebbero vivere qui senza danneggiare irreparabilmente la biosfera da cui dipendiamo per sopravvivere.

Una specie sostenibile non danneggia mai irreparabilmente la biosfera. Questo è un impegno piuttosto importante.

Gli umani danneggiano la biosfera in molti modi.

Uno è spostando le risorse da una regione a un altra. Usurpiamo l'habitat e le risorse necessarie ad altre specie e le sequestriamo per uso umano. Le risorse ottenute in regioni non importanti per l'uomo vengono spostate ovunque gli umani ne abbiano bisogno, a spese delle specie indigene nel luogo originario.

Spostiamo anche le risorse nel tempo, rubando risorse dal passato e dal futuro e usandole nel presente. Un esempio di questo è l'utilizzo di energia da combustibili fossili per pompare l'acqua fuori dalle falde acquifere per l'agricoltura, in tal modo utilizzando le risorse storiche di combustibili fossili per ridurre le risorse idriche future, a favore delle colture odierne.

Usurpiamo l'habitat di altre specie semplicemente spostando gli umani in quel luogo, e nel processo rendendolo inospitale alla vita indigena (la vita indigena colpita non ha nemmeno bisogno di essere non umana …). Il sequestro di habitat e risorse per l'uso umano spesso va di pari passo.

L'insostenibilità della nostra specie in qualsiasi momento può essere approssimativamente misurata dal grado in cui abbiamo concentrato la distribuzione spaziale e temporale delle risorse nel qui e ora e dalla misura in cui gli esseri umani hanno sostituito la vita selvaggia di ogni sorta.

Al contrario, essere una presenza pienamente sostenibile richiederebbe di non fare danni al pianeta che non possano essere riparati da processi biofisici naturali in tempo reale.

Con tale comportamento così limitato, la specie umana potrebbe sopravvivere per molto tempo (forse decine di milioni di anni) insieme a tutte le altre specie sostenibili. Naturalmente, qualsiasi danno che non può essere riparato invoca il concetto di overshoot, che accorcerà il periodo di sopravvivenza della nostra specie di una certa quantità (sconosciuta, forse inconoscibile).

Dovrebbe essere ovvio a tutti qui che l'attuale stile di vita della nostra specie è "abbastanza insostenibile" secondo questi criteri.

È possibile riportare la nostre specie alla sostenibilità? Per rispondere a questa domanda è di aiuto avere un punto di riferimento. Quando è stata l'ultima volta che l'Homo sapiens si è qualificato come specie sostenibile usando questi criteri?

Secondo me, il momento deve essere posizionato almeno prima dell'invenzione dell'agricoltura, poiché è stata la tecnologia agricola a dare il via alla popolazione e alla crescita culturale che ci ha portato qui.

Prima dello sviluppo dell'agricoltura (tenendo distintamente fuori l'orticoltura praticata da molte società di cacciatori-raccoglitori), si stima che la popolazione umana globale fosse di circa 6 milioni di persone, con un tasso di crescita annuale intorno allo 0,02%

Una tale popolazione di 6 milioni di cacciatori-raccoglitori potrebbe forse essere considerata sostenibile, tranne un paio di avvertimenti.

Un avvertimento è la crescita della popolazione. Con un tasso di natalità netto in crescita non ci volle molto perché una popolazione di 6 milioni si trasformasse in 6 miliardi. Lo abbiamo gestito in poco più di 12.000 anni, con un tasso di crescita medio di un misero 0,06%. Il nostro attuale tasso di crescita è superiore all'1%, 50 volte superiore allo 0,02% di "Homo sustenibilis".

L'altro avvertimento è la crescita del consumo pro capite, nonché la crescita della tecnologia necessaria per sostenere sia la crescita della popolazione che i livelli di consumo.

Il consumo pro-capite può essere approssimato dal consumo di energia, poiché tutti i beni materiali richiedono energia per essere prodotti. Un cacciatore-raccoglitore consumava circa 150 watt in cibo e carburante. Un umano moderno usa più di venti volte tale importo. Questo uso di energia amplifica il danno arrecato alla biosfera dal numero crescente di umani.

Quindi, 6 milioni di esseri umani che vivono tutti come cacciatori-raccoglitori potrebbero essere considerati sostenibili. Ma solo se dovessero mantenere una popolazione permanentemente statica limitata a 6 milioni e un livello statico di consumo pro-capite limitato all'equivalente di 150 watt di energia consumata.

Secondo questa stima, rispetto ai nostri antenati che potremmo definire sostenibili, siamo già in superamento di un fattore di circa 25.000. Ed aumenta con ogni nuova bocca e ogni aumento del consumo di energia.

(Generatore di sarcasmo ON)

L'umanità potrebbe ovviamente tornare indietro verso la sostenibilità. Vai tranquillo. Tutto ciò che dovremmo fare è: ridurre la nostra popolazione di quasi 7,5 miliardi; fermare completamente la crescita della popolazione; ridurre il nostro consumo di energia e l'attività che supporta - diciamo del 90%); ed eliminare tutto lo sviluppo tecnologico che comporta un maggiore consumo di energia (ti sto guardando, William Stanley Jevons.)

(Sarcasmo OFF)

Che cosa? Non possiamo / non lo faremo? Lo so. Questo non è un esercizio di definizione degli obiettivi. È un esercizio per misurare la larghezza dell'Oceano Atlantico nel caso in cui fossimo intenzionati a provare a nuotare attraverso di esso.


lunedì 19 dicembre 2016

Comunicazione nella scienza del clima: la fiducia genera fiducia

Da “Cassandra's Legacy”. Traduzione di MR



Con più di 50.000 studenti, l'Università di Firenze è una gigantesca organizzazione con moltissimi problemi. Ma è anche un'università antica e prestigiosa che, a volte, riesce a fare qualcosa di giusto. Recentemente ha organizzato una giornata informativa sul cambiamento climatico per i suoi impiegati che ha avuto un notevole successo, dimostrando che la fiducia genera fiducia.  

Perché non riusciamo a comunicare il pericolo del cambiamento climatico? Forse le persone non hanno informazioni sufficienti? (Questo è il modello del “deficit di informazioni”). O forse hanno troppe informazioni? (Questo si chiama modello di “cognizione culturale”). O forse non hanno le giuste informazioni? O c'è qualcos'altro di sbagliato?

Senza entrare nei dettagli del dibattito, vi racconto di un avvenimento che mi ha aperto gli occhi. Mi ha fatto capire che c'è un problema di “deficit di informazioni”, ma anche che le cose non sono così semplici. Penso che più che un deficit di informazioni, c'è un “deficit di fiducia" che blocca la comunicazione. Non è sufficiente dire alle persone come stanno le cose: dobbiamo ingenerare fiducia. E la fiducia produce fiducia. Ma fatemi raccontare questa storia. 

Quest'anno, l'Università di Firenze ha deciso di offrire al suo personale – gli impiegati che lavorano in amministrazione o nei servizi – tre “giornate di informazione” su materie legate alla sostenibilità. Una di queste giornate di informazione è stata dedicata al cambiamento climatico e si è tenuta il 9 novembre del 2016. 

Il primo punto è che questa doveva essere una lezione, non un giorno di vacanza: ci sarebbero state diverse conferenze per un totale di circa otto ore che abbiamo pianificato come vere lezioni di livello universitario. C'era modellazione, paleoclimatologia, negoziati climatici, comunicazione, mitigazione, adattamento ed altro. Si trattava di comunicazione diretta a non scienziati, ma gli oratori erano tutti specialisti nei loro campi e non hanno tentato di addolcire la pillola o di banalizzare il tema. Insomma, era una cosa impegnativa.

Ad essere onesto, non ero sicuro che avrebbe funzionato. Temevo che le persone avrebbero preso l'iniziativa come una scusa per un giorno di vacanza; non si sarebbero presentati o si sarebbero presentati e sarebbero scomparsi subito dopo. Oppure, se fossero rimasti, sarebbero stati annoiati a morte e avrebbero dormito per tutto il giorno. Mi aspettavo persino che qualche idiota fra il pubblico si sarebbe alzato e avrebbe detto una cosa tipo “non vedete quanto fa freddo oggi? Il cambiamento climatico è una truffa!”

Ma non è successo niente di tutto questo. Con una certa sorpresa da parte mia, l'aula magna dell'Università di Firenze era gremita da circa duecento persone, principalmente impiegati dell'università, ma anche studenti e membri della facoltà. La maggior parte di loro sono rimasti coraggiosamente seduti per tutte le otto ore delle conferenze, un'impresa notevole (in alcuni momenti, alcuni sono dovuti restare in piedi perché non c'erano sedie sufficienti a disposizione). E non solo sedevano nella stanza, ascoltavano le conferenze. Dopo le molte esperienze con conferenze e lezioni pubbliche, sono in grado di percepire se il pubblico è attento o no e loro lo erano. Non dormivano. In realtà ho individuato alcuni occhi chiusi qua e là – è normale. Ma, nel complesso, direi che erano più attenti di molti dei miei studenti. 

Non abbiamo tentato di fare una valutazione formale dei risultati di questa iniziativa, ma penso di avere feedback informali sufficienti da potervi dire che il messaggio è passato. Molte persone non erano soltanto interessate, erano sorprese. Non avevano idea che la scienza del clima fosse un campo così profondo, ampio ed affascinante. Non si erano mai resi conto della portata della minaccia che abbiamo di fronte. 

Per me, come ho detto, è stata un'esperienza che mi ha aperto gli occhi e che mi ha fatto rivalutare tutto ciò che sapevo sulla comunicazione scientifica. Mi ha fatto capire quanto lontana sia la scienza del clima per persone che soffrono davvero di un problema di deficit di informazioni. La maggior parte di quelli che non sono scienziati prendono le informazioni dai media mainstream (MSM) e ci sono due problemi con questa cosa: uno è che ricevono solo frammenti e scorci, immersi nel rumore generale delle notizie. L'altro, forse più importante, è che giustamente non si fidano dei MSM. Eppure, dove altro possono prendere le informazioni? E' davvero una combinazione mortale: cattiva informazione  da una fonte di cui si diffida, c'è da stupirsi che nessuno stia facendo niente per il cambiamento climatico? 

Ed ecco l'università, un'istituzione piena di problemi ma che si suppone che esista per creare scienza e cultura, non per fare soldi. A causa di questo, gode di un certo prestigio e, stavolta, lo ha usato per fare qualcosa di giusto. Ha detto ai suoi impiegati, “vi apprezziamo, quindi vi offriamo la nostra conoscenza sul cambiamento climatico gratuitamente. Abbiamo fiducia che lo apprezzerete”. E gli impiegati hanno risposto ricambiando la fiducia e apprezzando questo dono. La fiducia genera fiducia. 

Penso che questa esperienza abbia un valore generale. Concorda con un fatto descritto, per esempio, da Ara Norenzayan nel suo libro “Big Gods”. Detto in breve, le persone crederanno al messaggio se (e solo se) si fidano del messaggero. Quindi non stupisce che le persone non siano molto trasportate dai messaggi che ricevono da parte dei MSM – non solo ricevono un messaggio poco comprensibile, non si fidano del messaggero. Ma quando ricevono il messaggio da un'istituzione fidata e da persone che, chiaramente, fanno del loro meglio per informarli, allora capiscono. Non è una questione di volume o di addolcire la pillola, non una questione di strategie o di pubbliche relazioni. E' una questione di fiducia. 

Ed è qui il problema: abbiamo sperperato così tanta della fiducia che l'opinione pubblica aveva nelle sue fonti di informazione che viviamo oggi nel pieno dell' “Impero delle bugie”. Saremo mai in grado di ripristinare la fiducia? Forse non è impossibile, ma molto, molto difficile. Eppure, ciò che ha fatto l'Università di Firenze è stato un passo nella giusta direzione. Forse può essere replicato in seguito, chi lo sa? 

Vorrei ringraziare tutti coloro che hanno partecipato a questa giornata informativa come relatori o come organizzatori, in ordine alfabetico. 

Adele Bertini
Marco Bindi
Francesca Bigi 
Federico Brocchieri
Stefano Caserini
Gianfranco Cellai 
Sara Falsini
Alessandro Galli 
Giovanni Pratesi 
Luca Toschi 

domenica 4 settembre 2016

Sostenibilità - Insostenibilità


Ecco la cosa: se le pietre sono o no senzienti, se le sequoie sono più intelligenti o più stupide degli esseri umani (o se, come credo sia il punto, la loro intelligenza è così vastamente diversa da non essere confrontabile, e le misurazioni interspecifiche di intelligenza sono impossibili e nella migliore delle ipotesi senza senso (e nel peggiore dei casi dannose, come si vede, quando le usiamo per sostenere suprematismi preesistenti)), se i fiumi sono semplicemente recipienti per l'acqua o esseri a sé stanti, queste non sono le domande principali da porre.

Pensateci : i Tolowa (indiani del nord-ovest americano, ndt) hanno vissuto dove vivo ora per almeno 12.500 anni, se si crede ai miti della scienza; e hanno vissuto qui fin dall'inizio del tempo, se si crede ai miti dei Tolowa. E non distrussero il posto. Quando gli Europei arrivarono qui il posto era un paradiso. Non sto dicendo che i Tolowa erano perfetti, non più di quanto chiunque altro è perfetto. Sto dicendo che vivevano qui in modo sostenibile.

La cultura dominante ha rovinato questo luogo, come essa rovina ogni luogo.

La più grande differenza tra le visioni del mondo degli Occidentali e quelle degli Indigeni è che gli esseri umani Indigeni in genere percepiscono il mondo come composto da altri esseri con i quali possono e dovrebbero entrare in relazioni rispettose, e gli Occidentali in genere percepiscono il mondo come consistente di risorse da sfruttare.

La visione del mondo civilizzato occidentale è insostenibile. Una credenza nella superiorità umana - e le credenze che i non-umani non sono pienamente senzienti, che i fiumi non sono esseri, e così via - non è sostenibile. Il fatto che è insostenibile significa che è insanabilmente disadatta. Il fatto che sia insanabilmente disadatta significa che è un vicolo cieco evolutivo. Il fatto che sia insostenibile mi rende chiaro che è anche inesatta : una percezione esatta del proprio posto nel mondo e le azioni basate su questa percezione mi sembrano essere più propense a portare alla sostenibilità; mentre una percezione inesatta del proprio posto nel mondo, e le azioni sulla base di questa percezione, mi sembrerebbero essere più propense a portare alla insostenibilità. Come si vede.

Non conosco il motivo per cui sempre più persone non capiscono questo. Credo sia perché le credenze indiscusse sono le vere autorità di ogni cultura. 

E credo sia perché alla maggior parte dei membri di questa cultura è stato inculcato di non aver cura della vita su questo pianeta. Quest'ultima frase da sola è sufficiente ad affossare una credenza nella supremazia umana.


sabato 27 agosto 2016

Donella Meadows: una definizione di sostenibilità

Da “Donella Meadows Institute”. Traduzione di MR

Di Donella Meadows Febbraio 1995

Da alcuni mesi devo una risposta ad uno di voi che ha chiesto una definizione della parola che probabilmente qui uso più spesso di ogni altra: sostenibilità. E' diventato una parola del gergo internazionale, con quasi tanti significati quante sono el persone che la usano. Coloro fra noi che hanno parlato di sostenibilità per molto tempo hanno smesso di definirla. A volte diciamo che è come il jazz, o la qualità, o la democrazia – non la si conosce definendola, la si conosce sperimentandola, entrandoci dentro, vivendola – o forse piangendo la sua assenza. Ma qualsiasi cosa si dica a parole non è Sostenibilità, sono solo Parole. Quelli che Sanno non parlano, quelli che parlano non Sanno.

Questo naturalmente è un modo per non prendersi la responsabilità, ovviamente. C'è una definizione ufficiale perfettamente buona, che proviene dal rapporto del 1987 della Commissione Internazionale per l'Ambiente e lo Sviluppo:

La specie umana ha la capacità di raggiungere uno sviluppo sostenibile – soddisfare le necessità del presente senza compromettere la capacità delle future generazioni di soddisfare le loro.

Questa definizione ha due parti – soddisfare i bisogni e farlo in un modo che preservi le risorse naturali, umane e sociali con le quali vengono soddisfatti i bisogni. E' importante ricordare questo, perché la discussione troppo spesso si divide fra coloro che voglio soddisfare i bisogni e coloro che vogliono proteggere l'ambiente, come se far l'uno sia incompatibile col fare l'altro. La differenza fra gli ambientalisti tradizionali e “quelli della sostenibilità” è la capacità di mantenere il la concentrazione sul benessere sia degli esseri umani sia dell'ambiente allo stesso tempo e di insistere sue entrambi.

Nella mia mente io integro quella definizione ufficiale di sostenibilità con la spiegazione chiara ed innegabile di Herman Daly di cosa significa in termini fisici:


1. Le risorse rinnovabili non devono essere usate più rapidamente di quanto si possano rigenerare.

2. Inquinamento e rifiuti non devono essere immessi nell'ambiente più rapidamente di quanto l'ambiente possa riciclarli e renderli innocui.

3. Le risorse non rinnovabili non devono essere usate più rapidamente di quanto i sostituti rinnovabili (usati sostenibilmente) possano essere sviluppati.

In quelle condizioni non c'è una nazione, una società, una città, una fattoria, o una famiglia sulla Terra che sia sostenibile. Virtualmente, tutta la grande pesca del mondo viola la condizione 1. L'economia mondiale nel suo complesso viola la condizione 2 emettendo biossido di carbonio il 60-80% più rapidamente di quanto l'atmosfera possa riciclarlo. Ma a peggiorare le cose, aggiungerei  altre due condizioni di sostenibilità che credo siano ovvie.

4. La popolazione umana e l'impianto di capitale fisico devono essere mantenuti a livelli sufficientemente bassi da permettere alle prime 3 condizioni di essere soddisfatte.

5. Le precedenti 4 condizioni devono essere soddisfatte tramite processi che siano sufficientemente democratici ed equi di modo che le persone si attivino per favorirli.

Sostenibilità significa tutto questo per me, significa una visione completa del mondo per cui voglio lavorare e vivere. Contiene componenti di spiritualità, di comunità, di decentralizzazione, di un completo ripensamento dei modi in cui usiamo il nostro tempo, definiamo i nostri lavori e conferiamo potere a governi e multinazionali. “Sostenibilità” è una parola terribilmente inadeguata per ciò che
intendo. Qualsiasi parola di sei sillabe è troppo lunga per organizzarci intorno un movimento popolare ed allo stesso tempo troppo corta per comprendere una visione completa. E troppe persone la percepiscono come “sostenere” il mondo che abbiamo ora, mentre io in realtà la intendo come fomentare una rivoluzione.

giovedì 21 luglio 2016

Uguaglianza e sostenibilità: possiamo averle entrambe?

Da “Cassandra's Legacy”. Traduzione di MR

Di Diego Mantilla




Guest post di Diego Mantilla

Recentemente, in questo blog, Jacopo Simonetta ha sollevato una domanda molto importante: una più giusta distribuzione del reddito in tutto il mondo diminuirebbe il danno che gli esseri umani stanno facendo alla terra? La sua risposta, che non lo farebbe e in realtà renderebbe le cose molto peggiori, mi ha intrigato. Quindi ho deciso di guardare i dati migliori disponibili.

Simonetta ha guardato nello specifico alla questione del se una distribuzione piì giusta del reddito ridurrebbe le emissioni globali di CO2. Nel 2015, Lucas Chancel e Thomas Piketty (da ora in avanti C-P) hanno scritto un saggio ed hanno messo online una serie di dati relativi che hanno affrontato la distribuzione globale del consumo delle famiglie e le emissioni di CO2e (biossido di carbonio equivalente = CO2 ed altri gas serra) nel 2013. I dati non sono perfetti, ma sono i migliori che esistono. La serie di dati di C-P coglie i valori delle Household Final Consumption Expenditures – HFCE (spese finali delle famiglie per il consumo) forniti dalla Banca Mondiale, usando la distribuzione del reddito della serie di dati di Branko Milanovic (che riguardano il 99% di quelli bassi) e quella del World Wealth and Income Database (che riguardano l'1% di quelli alti). (Il reddito non equivale al consumo e C-P ipotizzano che la distribuzione del reddito sia la stessa di quella del consumo. Inoltre, ipotizzano che la stessa distribuzione del reddito che c'era nel 2008 esistesse anche nel 2013. Come ho detto, la serie di dati non è perfetta).

mercoledì 8 giugno 2016

L'Università di Firenze alla ricerca della sostenibilità



7 Giugno 2016: Il rettore dell'Università di Firenze, Prof. Luigi Dei, inaugura la manifestazione "ScienzEstate" a Firenze. Quest'anno, il tema principale è la sostenibilità. (vedi anche la pagina di Unifi dedicata alla sostenibilità su Facebook)


L'ateneo di Firenze sta facendo un grosso sforzo per posizionarsi come ateneo sostenibile e come leader sull'argomento "sostenibilità". E' un'iniziativa spinta con decisione dal nuovo rettore, il prof. Luigi Dei, come un modo intelligente per reagire alle grosse difficoltà che ci troviamo di fronte in questo momento; soprattutto in tema climatico: Gli obbiettivi stabiliti a Parigi con la COP21 non saranno raggiungibili senza un cambiamento di rotta fondamentale di tutta la società. Per questo scopo, le nostre università possono fornire competenza, formazione, informazione e molto di più per aiutare la "società civile" a muoversi nella giusta direzione.

Quindi, il primo passo è ora quello di coordinare le varie attività, molte di altissimo livello internazionale, che un grande ateneo come quello di Firenze ha al suo interno. E non solo attività di ricerca, ma anche tutto quello che possiamo fare come ateneo per dare l'esempio di comportamenti virtuosi in campo ambientale, come nella gestione dei rifiuti e in quella dell'efficienza energetica degli edifici e dei trasporti. Anche qui, si fanno molte cose eccellenti nell'Università di Firenze, ma spesso slegate fra di loro ed episodiche. Bisogna coordinarle per cercare di fare "massa critica" e migliorare.

L'impegno di cercare di far partire questa coordinazione è un lavoro che il modesto sottoscritto (Ugo Bardi) si è preso all'anima di fare come delegato su questo argomento. A breve, dovremmo avere un sito Web di Ateneo dedicato alla sostenibilità. Ma, già ora, è nata la pagina di Ateneo su Facebook dedicata alla sostenibiltà. La trovate a questo link:

https://www.facebook.com/UnifiSostenibile/ (Oppure, cercate "Unifi: Ateneo Sostenibile" sulla barra di ricerca di Facebook).

Se l'argomento vi interessa, andate a vedere questa pagina. Facebook permette una comunicazione rapida e informale; spesso molto efficace. Quindi, se avete idee, commenti, proposte, fantasie, proteste, lamentele, mugugni, poesie ermetiche, o altre cose che pensate siano correlate alla sostenibilità, fateci sapere!

Ovviamente, questi sono soltanto primi passi. La comunicazione serve a favorire le attività ma, di per se, non le crea. Quindi, da qui in poi cercheremo di andare avanti e di costruire qualcosa di utile.






giovedì 1 ottobre 2015

Mangio, quindi uccido: i limiti del vegetarianismo

Da “The Great Change”. Traduzione di MR

“Perché pensiamo di doverci appropriare di tutte le terre coltivabili del mondo per sfamare gli esseri umani?”

Cavalli islandesi
Di Albert Bates

Siamo tutto ciò che che pensiamo come “individui” in comunità viventi di fatto. Qui in Islanda abbiamo partecipanti a corsi di permacultura da questo paese e da Germania, Stati Uniti, Danimarca, Messico, Canada, Australia, Svizzera, Francia, Norvegia, Svezia, Indonesia, Bulgaria e Costa Rica. Ognuno di noi sta fertilizzando in modo incrociato tutti gli altri col proprio microbioma – le spore e i microbi che trasportiamo dalle nostre bioregioni e trasmettiamo liberamente per contatto attraverso la pelle, l'aria, i fluidi e varie superfici che tocchiamo. Ognuno di noi se ne va con un nuovo microbioma, leggermente alterato e più diversificato di quello con cui è arrivato.

Raccogliamo ed incorporiamo anche nuovi microbi dall'ambiente del luogo. Potremmo ingerire parti e pezzi che sono già passati attraverso il corpo di un antico vichingo, o del suo cavallo, prima che venissero interrate nel suolo per qualche tempo, per poi trovare la loro strada nel cibo e nell'acqua ed ora per venir via con noi per diventare parte del suolo da qualche altra parte. Alla fine, veniamo tutti dalla polvere di stelle e veniamo continuamente riciclati.

Il padre della Permacultura, Bill Mollison, amava canzonare i vegetariani per le loro scelte dietetiche perché pensava che ogni argomentazione per scendere più in basso nella catena alimentare fosse un po' sospetta. “Non ho passato diversi milioni di anni ad arrampicarmi con unghie e denti fino al vertice per poi mangiare tofu”, ci ha detto una volta a pranzo. Abbiamo guardato imbarazzati il nostro tofu.

In quel periodo stavamo partecipando ad un incontro sulla Permacultura a Perth, in Australia Occidentale e al personale della cucina è stato detto che ci si attendevano principalmente persone che mangiavano carne. Sfortunatamente c'erano tre volte più vegetariani fra i permacultori partecipanti, il che ha significato lunghe code per l'opzione vegetariana e che il personale che serviva i pasti ha vissuto una piccola crisi per mancanza di lungimiranza.

Islanda: campi di lava coperti da un leggero strato di erba da pascolo; vaste aree sono adatte soltanto ad allevare animali.

Robyn Francis, che è stata una delle prime studentesse di Bill e lo ha aiutato a compilare il Manuale di progettazione in Permacultura nei primi anni 80, fa a pezzi alcune delle argomentazioni etiche più comuni. “La carne è solo clorofilla concentrata su un bastoncino di calcio”, dice, prendendo a prestito un'intuizione unica nel suo genere da un ex studente.

La rotazione del pascolo dei maiali spezza le zolle e approfondisce il profilo del suolo, rendendolo coltivabile per verdure e cereali.

La banale frase vegana sul non mangiare cose che hanno occhi o che cercano di scappare potrebbe essere divertente, ma come sappiamo da studi sui meccanismi sensori e le “emozioni” delle piante, anche quelle hanno sentimenti, conoscono la paura, cercano di preservarsi la vita e preferirebbero non essere la vostra cena se fosse offerta loro una scelta. Inoltre, ognuna di loro ha un microbioma fatto di molti piccoli animali con occhi che cercano di scappare.

Zoocentrismo: il relegare le piante in fondo alla gerarchia della vita intelligente.

La Robyn ha fatto una slide prendendo spunto da uno studio sulla coltivazione di cereali in Australia che mostra quante cose viventi – rettili, uccelli, furetti, topi di campagna – vengono massacrati ogni anno per ettaro di cereali che viene raccolto dalle mietitrebbie. Nell'area di studio del Nuovo Galles del Sud, i raccoglitori di cereali uccidono 25 volte più animali per ettaro degli analoghi pascoli di mucche destinate al macello. Messa in un altro modo, il rapporto di bulbi oculari di cose che cercano di scappare è circa di 25:1 in sfavore del lato vegano della contabilità. In un'altra slide, la Robyn spiega che possedere un cane pastore consuma il costo di risorsa equivalente di possedere un SUV. Ed è meglio che non parliamo dei gatti domestici.

Diciamocelo. Se siamo vivi lo rimaniamo solo uccidendo qualcos'altro. E' così che circolano i nutrienti fra roccia, suolo, piante, materia in decomposizione, insetti, batteri, funghi ed animali. E' un processo di gruppo, ognuno di noi ha un ruolo, ad un certo punto, come predatore o come preda. Potrebbe non piacerci di mangiare vermi, ma alla fine loro sono più che felici di mangiare noi.

“In pratica, non esiste l'autonomia. In pratica, c'è solo una distinzione fra dipendenze responsabili ed irresponsabili”.

Wendell Berry, L'arte del luogo comune


Pubblicata su Facebook il 27 agosto, 

questa immagine ha 12.000 like e 2877 condivisioni, finora.
Considerate il più ampio problema della fornitura globale di cibo. Gli esseri umani ora sono 7 miliardi e continuano ad espandersi. Fornitura di energia, cibo ed acqua permettendo. Un terzo della massa terrestre della terra è adatta all'agricoltura ma solo un terzo di questa è realmente coltivabile a cereali, verdure, frutta o il tipo di cose che mangiano i vegani. Gli altri due terzi non sono in grado di far crescere vegetali e potrebbero non avere acqua sufficiente per la coltivazione di alberi, ma possono, con una gestione accurata e una giusta presenza di bestiame, sostenere animali commestibili. Infatti, se seguite la discussione di massa sulla rotazione dei pascoli iniziata da Allan Savory, potreste credere che solo le grandi mandrie di animali al pascolo, raggruppati ed in movimento, siano in grado di ripristinare ecologicamente quelle tipologie di terreni danneggiati, ri-sequestrando il carbonio che avevano un tempo e ripristinando i cicli idrologici e climatici del pre-Antropocene – il regime di acqua e suolo un tempo costruito e conservato da bufali, mammut, tigri e lupi.

Ecco un punto di contesa che portiamo con questa discussione, e diamo il benvenuto alla discussione. Per estensione, possiamo dire che se la terra coltivabile è il premio, allora la terra buona con molta acqua dev'essere dedicata ai cereali, alle verdure, alla frutta ed al tipo di cose che mangiano i vegani. Di gran lunga più persone possono essere nutrite con proteine di alta qualità, carboidrati e grassi da quella terra se mangiamo dalla parte bassa della catena alimentare, perché far passare i cereali attraverso gli animali ci fa perdere ritorni nutrizionali di grandi fattori, da 10:1 nel caso del pollame a 40:1 nel caso dei bovini. Secondo la logica usata dalla Robyn, dobbiamo allevare animali domestici esclusivamente sulle terre marginali che non possono sostenere nient'altro. Ciò elimina la fattoria di Joel Salatin in Virginia e molte delle operazioni con animali ad alto rendimento in Nord e Sud America, Europa, Africa, Asia ed Australia. Niente più Manzo di Kobe o Sauerbraten tedesco.

L'argomentazione per mangiare animali da allevamento assume che non possiamo nutrire il mondo se togliessimo l'allevamento di animali e ci concentrassimo sulle piante. Possiamo – solo sulla porzione di terra coltivabile primaria che ha una buona stagione agricola e un sacco di acqua. Un acro di soia biologica, coltivata senza arare, nutrito con biochar che fissa l'azoto e non OGM, non trasformato in mangime animale o plastiche, può fornire proteine di alta qualità come 40 o più acri di bovini. Eliminate l'allevamento di animali nei terreni agricoli migliori e non avrete bisogno di usare l'altro 60% delle terre coltivabili per animali da nutrimento.

Perché pensiamo di doverci appropriare di tutte le terre coltivabili del mondo per sfamare gli esseri umani?

Produrre cibo per le popolazioni umane nei climi secchi o con suoli poveri importandolo da terre migliori è una proposta rischiosa, dato che il paradigma della globalizzazione ora è in vita ed è costruito su uno schema di debito Ponzi che è un vero furto nei confronti dei nostri figli. Il mondo è costretto dall'inesorabilità della fisica dell'energia fossile a rilocalizzare, e rapidamente. Continuare a seguire la curva esponenziale consumistica – di uso di acqua, perdita di suolo, esaurimento del petrolio, estinzione di pesci, popolazione e inquinamento – è pura follia. Al di là di ogni bugia, un Dirupo di Olduvai.

Cavallo islandese arrosto. Il cavallo era
la carne tradizionale del Sauerbraten tedesco. 
In un mondo localizzato, in assenza di un declino indotto catastroficamente, immaginiamo che la popolazione umana frenerà gradualmente verso qualcosa che si avvicina all'equilibrio di stato stazionario fra offerta e domanda in cui gli indigeni erano maestri. Quella era la vecchia normalità prima dell'ultima era Glaciale e andrà probabilmente in quel modo nell'Era delle Conseguenze.

Gli esseri umani delle società locali potrebbero scegliere di equilibrare le loro diete in qualsiasi modo sia più efficace per il loro clima e i loro costumi. Alcuni potrebbero essere vegani, molti probabilmente no.



lunedì 20 aprile 2015

La terza ganascia dell’insostenibilità.

di Jacopo Simonetta

Per questo articolo sono completamente debitore alla breve conferenza “Limiti alla crescita di un sistema a complessità crescente” che il professor Angelo Tartaglia ha tenuto a Firenze, in occasione della presentazione pubblica del rapporto al Club di Roma, "Extacted", del prof. Ugo Bardi.    Una di quelle rare occasioni in cui, ascoltando una persona, provi la piacevolissima sensazione di sentire le finestre del cervello che si aprono cigolando.

In effetti, anche nell'ambito delle ristretta cerchia di persone che si preoccupano dell’insostenibilità del nostro sistema di vita e della nostra popolazione, l’attenzione principale va al deterioramento quali/quantitativo delle risorse.   Un attenzione notevole, ma minore, viene data all'accumulo di rifiuti solidi, liquidi e gassosi nell'atmosfera, le acque ed i suoli.   Ma non sono due le ganasce che stringono il nostro sistema, bensì tre.   E chiunque abbia mai maneggiato un trapano sa che un oggetto stretto da tre parti contemporaneamente non ha alcun margine di libertà.
Il terzo elemento in questione è il livello di complessità raggiunto dalla nostra economia e dalla nostra società.    Un argomento non certo nuovo per i lettori abituali di questo blog, ma al quale viene raramente data la visibilità che merita.

  Per chi volesse approfondire, consiglio subito tre testi di natura molto diversa, ma che trattano vari aspetti di questo complesso argomento:, The Collapse of Complex Societies (J. Tainter 1988), Bottleneck: Humanity's Impending Impasse (W. Catton 2009), Thermodymnamique de l’évolution ( F. Roddier 2012). Giusto per richiamare l’attenzione sull'argomento, vorrei qui riprendere alcuni passaggi della conferenza del prof. Tartaglia per giungere, però, a conclusioni assai diverse dalle sue.

Se prendiamo due punti, questi sono collegati da una sola relazione.   Tre punti da tre relazioni, quattro punti da sei, cinque punti da 10 relazioni e così via.     In una rete, il numero di relazioni potenziali cresce molto più rapidamente di quello dei nodi.

In un sistema reale, i nodi possono essere singole persone, ma anche organizzazioni, imprese, interi paesi.   Dunque generalmente abbiamo a che fare con nodi che, a loro volta, sono composti da reti o, più spesso, da un sistema di reti articolate su più livelli organizzativi.   Tutto ciò moltiplica ulteriormente la complessità del sistema.

Lungo ognuna delle connessioni può transitare una certa quantità di materia, energia e/o informazione.     Se il flusso aumenta, la connessione comincia a dare dei problemi che possono arrivare al blocco completo del flusso, come accade in autostrada la sera di Pasquetta.    Dunque, se i flussi aumentano, occorre aumentare le connessioni ed i nodi, ma questo rende sempre più difficile un controllo ed una gestione coordinata della rete.   Anche perché il controllo della rete comporta una moltiplicazione dei nodi e delle relazioni.    Ad esempio, ci vorranno reti di telecamere per controllare la rete stradale; e poi una rete di controllo e manutenzione delle telecamere e così via. Insomma, il punto cruciale è che il funzionamento di una rete può essere migliorato aumentandone la complessità, ma fino a quando?

A titolo di esempio, citerò il caso estremamente semplice di una singola lampadina.    Una vecchia lampadina ad incandescenza funziona sulla base dello schema “A” ed è assai poco efficiente.   Le lampadine a led hanno rendimenti enormemente superiori in fase di uso, ma funzionano sulla base dello schema “B”.

 Non c’è bisogno di essere elettricisti per capire che l’aumento dell’efficienza è avvenuto a costo di un aumento proporzionalmente molto maggiore di complessità.
E la complessità costa sia in termini economici, sia in termini di energia grigia incorporata nell'oggetto; ma anche in termini di consumo di materiali rari non riciclabili ed in termini di guasti.   In effetti, è vero che il singolo led ha una vita operativa lunghissima, ma le lampadine no perché spesso si rompe qualcuno dei numerosi componenti a monte del led.

Tornando ai sistemi su cui funziona la nostra società, osserviamo che ogni relazione è costituita da qualcosa (strade, cavi, processori, rotte, bande di frequenza, tubi,  eccetera) che per essere mantenuto in efficienza abbisognano di manutenzione e controllo.   Man mano che la rete cresce e diviene più complessa, aumenta il rischio di guasti, incidenti, ingorghi ecc.     Si rende allora necessario investire per migliorare l’efficienza e la a sicurezza di nodi e connessioni, il che significa migliorare le tecnologie, le procedure, i regolamenti, i comportamenti, la vigilanza, la manutenzione, ecc.    Tutte cose soggette all'implacabile legge dei “ritorni decrescenti”.   Ciò significa che , man mano che si migliora, ogni ulteriore miglioramento comporta un costo sempre maggiore a fronte di un risultato sempre minore.    In pratica, avvicinandosi al massimo teoricamente possibile di efficienza e sicurezza, il costo dei miglioramenti tende ad infinito.

Riassumendo, nell'economia reale l’incremento delle reti comporta quindi un aumento dei vantaggi connessi con l’interscambio di materia, energia ed informazione.    Vantaggi che generalmente prendono la forma di un qualche tipo di ricchezza (non necessariamente monetaria).   Ma il costo per mantenere efficiente una rete viepiù complessa aumenta più rapidamente dei vantaggi che questa porta.   Dunque una frazione crescente della ricchezza prodotta grazie alla rete deve essere reinvestita nella medesima.    Finché, teoricamente, l’intera ricchezza viene riassorbita dalla rete ed il sistema collassa secondo una tipica “curva di Seneca”, probabilmente prima di raggiungere i limiti imposti dall’esaurimento delle risorse che alimentano la rete.

Molto altro è stato detto dal prof  Tartaglia, ma questo mi pare già sufficiente per  trarre la conclusione che la sostenibilità non dipende solo da un prelievo delle risorse proporzionato al loro rinnovamento ed una produzione di rifiuti che non ecceda la capacità di assorbimento da parte degli ecosistemi.   Altrettanto dipende da un livello di complessità del sistema socio-economico che sia efficacemente gestibile con una quota modesta delle risorse complessivamente disponibili.

A questo punto, le mie opinioni divergono però da quelle del professor Tartaglia, che spero legga queste note e mi contesti.   Nella sua conferenza, egli concludeva infatti sostenendo che è ancora possibile realizzare una società sostenibile a condizione che si facciano urgentemente tre cose:

  • Ridistribuire la ricchezza anziché far crescere le disuguaglianze, inseguendo il mito di una ricchezza globale sempre crescente.
  • Passare dalla competizione alla cooperazione.
  • Cambiare società, cultura e morale in modo degno di un essere razionale, rispetto alla società degli scimpanzé tecnologici in cui viviamo ora.





Personalmente concordo pienamente con questi tre punti, ma non penso che siano realizzabili, neppure qualora ve ne fosse la volontà (che non c’è).   E neppure che sarebbero sufficienti, nell’improbabile caso che si realizzassero.


In primo luogo, se non risulterà molto sbagliato il rapporto “limiti della crescita” (e non sembra proprio che questo sia probabile), il collasso del sistema economico globale comincerà ad essere evidente fra 5 – 15 anni da ora.   Possiamo pensare che dei paesi e delle classi dirigenti in crescente affanno, sempre più concentrate sull’emergenza del momento, riescano a coordinare uno smantellamento programmato del sistema amministrativo ed economico?

In secondo luogo, sappiamo che l’aumento della complessità è solo uno dei tre insiemi di fattori che stanno stritolando la nostra civiltà.   Pensiamo davvero di poter trovare una scappatoia a tutte e tre contemporaneamente?   Soprattutto tenendo conto dell’aggrovigliata matassa di sinergie e retroazioni che lega tutti questi diversi fattori?

Per citare un solo esempio: l’inquinamento delle acque aggrava la penuria della medesima.   La risposta è pozzi più profondi, dissalatori ecc. che comportano maggiori consumi di energia.  Dunque sistemi più complessi che dissipano più energia, che richiedono filiere più lunghe e reti commerciali più interconnesse.   Queste aumentano l’inquinamento globale ed il depauperamento delle risorse. Fra l’altro, ciò aggrava l’effetto serra che, in molte aree del pianeta, si manifesta con temperature più altre e minori piogge, il che aggrava i problemi di inquinamento delle acque.   Per citare solo una piccola parte dei fattori coinvolti in questa sola retroazione.

In terzo luogo, i sistemi aumentano la propria complessità aumentando la quantità di energia che dissipano.   Così facendo, accumulano informazione al loro interno.   Maggiore è la dissipazione di energia, maggiore è la complessità del sistema che, così, riesce a dissipare più energia e così via.   Una retroazione che può svilupparsi solo finché c’è abbondanza di energia ed è possibile scaricare disordine fuori dal sistema (o dal sotto-sistema) in crescita.     Nell'economia globalizzata attuale, entrambe le cose stanno rapidamente diventando difficili.

La prima per il peggioramento quali/quantitativo delle risorse energetiche e per varie retroazioni nocive che hanno cominciato (o cominceranno a breve) a ridurre l’energia netta disponibile.   In termini assoluti ed ancor più pro-capite.
La seconda, perché ogni sotto-sistema, mentre scarica la propria entropia all'esterno, “si becca” l’incremento di entropia prodotto dagli altri.   Il caso del clima è forse il più evidente, ma non meno distruttiva per l’economia è la corsa all’esternalizzazione.   Cioè al fatto che ogni nodo della rete economica scarica sugli altri la maggior parte possibile dei suoi costi, assumendosi però quota parte di quelli di tutti gli altri.

Certamente potremmo ancora aumentare la quantità di energia che assorbiamo, ad esempio coltivando ogni metro di terra emersa e perfino di mare; oppure sfruttando i giacimenti di idrocarburi artici.  Ma con costi economici ed energetici molto rapidamente crescenti.   E' quanto meno molto probabile che, globalmente, abbiamo da già superato il limite della "crescita antieconomica".   Come accennato, forse l’energia netta disponibile ha già cominciato a diminuire ed, in ogni caso, lo farà tra breve.   Nel frattempo la popolazione cresce, il che significa che cresce la complessità.

Semplificare il proprio sotto-sistema per ridurne i consumi e gli impatti sarebbe una strategia attraente.   Ma, come fatto presente dal Tartaglia, sarebbe possibile esclusivamente in un quadro di cooperazione.   In un quadro di competizione, infatti, chi dissipa di più vince, necessariamente.   Finché riesce ad accaparrarsi risorse e scaricare rifiuti, naturalmente; poi muore.

Ma anche in un contesto utopico di cooperazione fra le potenze principali del pianeta, non dimentichiamoci che l’incremento della complessità e della dissipazione di energia è stata esattamente la strategia grazie alla quale oggi su questo pianeta vivono oltre 7 miliardi di persone.   Una struttura meno complessa e dissipativa potrebbe sostenere un numero molto minore di persone.

Non dimentichiamoci che ognuno di noi è uno di quei “punti” di cui abbiamo parlato all'inizio.

In parole povere, io la vedo in questi termini:   Allo stato attuale delle cose, ci sono moltissime cose che potremmo e dovremmo fare, per esempio quelle indicate da Tartaglia.   Ma nessuna che ci possa risparmiare un prezzo molto alto in termini di difficoltà, sofferenze e morti.   Ovviamente, in un meta-sistema della mole e della complessità dell’intero Pianeta, ci sono ampi margini di incertezza e sicuramente ci saranno soggetti che se la caveranno a buon mercato, o perfino meglio di come se la passino adesso.   Ma il trend generale peggiorerà necessariamente di anno in anno, per un lungo periodo.




mercoledì 18 febbraio 2015

Pellet: energia verde o una nuova fonte di emissioni di CO2?

Da “Resilience”. Traduzione di MR. Originariamente pubblicato su Yale Environment 360

Di Roger Real Drouin

Bruciare pellet per produrre elettricità è in aumento in Europa, dove i pellet sono classificati come forma di energia rinnovabile. Ma negli Stati Uniti, dove gli impianti per fare il pellet vengono rapidamente costruiti, crescono le preoccupazioni circa il disboscamento e il carbonio rilasciato dalla combustione di biomassa legnosa. Nel 2011, la Enviva – la più grande esportatrice di pellet degli Stati Uniti – ha aperto il suo impianto di punta per la produzione di pellet ad Ahoskie, North Carolina. L'impianto trasforma ogni anno 850.000 tonnellate di alberi e legno di scarto in sottili pellet che vengono spediti in Europa e bruciati in centrali elettriche per ciò che viene propagandata come una forma di elettricità rinnovabile.


La Dogwood Alliance della Enviva ad Ahoskie, North Carolina, impianto di produzione del pellet che trasforma ogni anno 850.000 tonnellate di alberi e legno di scarto in pellet.


Due anni dopo, la Enviva ha aperto un altro impianto di triturazione a 50 km dalla Contea di Northampton, in North Carolina, e per il 2016 è previsto che la società gestisca otto impianti di triturazione per il pellet dalla Virginia al Mississippi. Altrove negli Stati Uniti sudorientali, altre società stanno progettando o rapidamente costruendo impianti per produrre pellet. Un impianto di triturazione previsto dalla Biomass Power Louisiana a Natchitoches, Los Angeles, produrrà 2 milioni di tonnellate di pellet all'anno. La Drax, una società di servizi britannica che sta adottando misure per trasformarsi prevalentemente in una produttrice di energia da biomasse, ha detto che aprirà quattro suoi grandi impianti di triturazione per produrre pellet in Mississippi, South Carolina e Louisiana.

La domanda di questa presunta forma di energia verde è così robusta che le esportazioni di pellet dagli Stati Uniti è quasi raddoppiata dal 2012 al 2013 e sono previste quasi raddoppiare di nuovo a 5,7 milioni di tonnellate nel 2015. L'impennata della produzione è alimentata dalla domanda in crescita nel Regno Unito e in Europa, che stanno usando pellet per sostituire il carbone per la generazione di elettricità e il riscaldamento. Il programma per il 2020 dell'Unione Europea classifica il pellet come una forma di energia rinnovabile a zero emissioni di carbonio e le società europee hanno investito miliardi per trasformare le centrali a carbone in impianti che possono bruciare pellet.

Ma mentre la produzione di pellet esplode nel sudest degli Stati Uniti, gli scienziati e i gruppi ambientalisti stanno sollevando domande significative su quanto sia realmente verde bruciare pellet. L'industria del pellet dice di usare in prevalenza rami di alberi e altri scarti di legno per produrre pellet, rendendoli una forma di energia ad emissioni zero. Ma molti ambientalisti e scienziati credono che le attuali pratiche dell'industria siano tutt'altro che ad emissioni zero e che minaccino alcuni degli ultimi ecosistemi rimasti nel sudest degli Stati Uniti, compreso il bacino del fiume Roanoke che circonda l'impianto di Ahoskie e gli ecosistemi del pino palustre vicini all'impianto di triturazione della Enviva a Cottondale, in Florida. I critici contestano che la Enviva ed altri produttori di pallet spesso tagliano gli alberi interi – compresi i legni massicci provenienti dalle aree golenali – che possono impiegare un tempo lungo per ricrescere, rendendo così la combustione di pellet una fonte complessiva di emissioni di CO2.

“Li tagliano [gli alberi] e li bruciano per produrre energia in Europa – una pratica che degrada l'habitat cruciale delle foreste ed aumenta le emissioni di carbonio per molti decenni a venire”, dice Debbie Hammel, un esperto di risorse in forze al Consiglio di difesa delle Risorse Naturali (Natural Resources Defense Council – NRDC). Meno di un anno dopo che ha aperto l'impianto di Ahoskie della Enviva, il NRDC ha cominciato a monitorare come l'impianto  avesse un impatto sulle foreste vicine e quali tipi di alberi venissero usati per produrre pellet. Man mano che la domanda di produrre più pellet è aumentata, il NRDC ha osservato che le zone umide ricoperte di foreste nel bacino di Roanoke sono iniziate a sparire. “Una percentuale significativa della fonte di legno che la Enviva usa proviene dalle foreste di legno massiccio” dice Hammel, osservando che il disboscamento in quelle zone umide e nelle aree golenali crea grandi impatti ecologici, compresa la minaccia a specie come le cicogne dei boschi e gli usignoli cerulei. Secondo Hammel ed altri, bruciare pellet per produrre elettricità è di gran lunga più dannoso per l'ambiente e il clima che non le fonti di energia rinnovabile come solare ed eolico.

I funzionari dell'industria dicono, tuttavia, che produrre e bruciare pellet è una parte importante del mix di opzioni di energia rinnovabile. Seth Ginther, direttore esecutivo dell'Associazione Industriale del Pellet degli Stati Uniti, dice che il pellet è una “alternativa a basso costo e a basse emissioni” al carbone. In aggiunta, dice, la biomassa di legno ha meno zolfo, azoto, ceneri, cloro ed altre sostanze chimiche rispetto al carbone e ai combustibili fossili tradizionali. I produttori di pellet stanno usando legno di scarto e fibre legnose di basso livello in molti casi, secondo Ginther. Questo mercato di nicchia sta permettendo ad alcuni proprietari terrieri di continuare a piantare e coltivare alberi, piuttosto che abbattere i boschi per lo sviluppo commerciale o l'agricoltura. “La nostra industria aiuta ad incoraggiare i proprietari di foreste a riforestare e ripiantare, quindi questo mercato aiuta a mantenere in opera le foreste”, dice  Ginther. E dice anche che l'industria del pellet statunitense può attendersi una crescita anche più robusta se il mercato commerciale asiatico o il mercato residenziale europeo abbraccia la combustione di biomassa da legno. “Gli stati Uniti si sono insediati come una fonte sostenibile di fibra per la bioenergia e siamo molto orgogliosi del fatto che così tanti clienti europei si stiano rivolgendo ai produttori statunitensi per il loro approvvigionamento”, dice Ginther.

L'industria del pellet è davvero decollata nel 2012, dopo che il Dipartimento dell'Energia e del Cambiamento Climatico del Regno Unito ha pubblicato le linee guida sulla direzione della politica delle energie rinnovabili britannica per il prossimo futuro. Le linee guida hanno incoraggiato le società di servizi a trasformare i generatori alimentati a carbone in generatori che usano biomassa di legno ed ha fornito alle società di servizi l'opzione di bruciare pellet per aiutarle a soddisfare gli standard dell'Unione Europea di inquinamento dell'aria e di energia rinnovabile. Le società elettriche hanno quindi cominciato a trasformare il sudest degli Stati Uniti, dove il disboscamento è consolidato e molto meno limitato che in Europa, come fornitore primario di pellet. “E' l'UE che ha spinto quest'esplosione industriale”, dice Hammel.



NRDC/Dogwood Alliance. Foreste di legno massiccio delle zone umide vicino all'impianto della Enviva a Ahoskie, North Carolina.

Alcuni scienziati dicono che ci sono ancora più domande che risposte quando si tratta della combustione di pellet per l'energia in modo commerciale ed è in gran parte una questione di calcoli di ciclo del carbonio. Bob Abt, un professore di economia e gestione delle risorse naturali dell'Università di Stato del North Carolina, dice che molto dipende dall'origine e dal tipo di alberi usati per alimentare gli impianti di triturazione per il pellet. Bruciare pellet di legna rilascia la stessa quantità se non di più di biossido di carbonio per unità di energia che bruciare carbone, quindi perché la combustione di pellet sia ad emissioni zero, il carbonio emesso nell'atmosfera deve essere ricatturato in foreste rigenerate, dice Abt. Il legno di scarto, come le potature degli alberi e le parti inutilizzate degli alberi avanzate nelle segherie, sono il materiale migliore per il pellet, dice Abt. Ma lui ed altri dicono che non esistono tali rifiuti di legno in quantità sufficienti per alimentare la crescita della domanda di pellet. Quindi l'industria si è rivolta agli alberi interi.

Gli alberi dal legno tenero come il pino rigido coltivato in piantagioni gestite può essere piantato e ricrescere relativamente in fretta dopo il raccolto e la rimozione selettiva di alcuni alberi potrebbe verificarsi entro 12 anni. Quando viene usato il legno tenero, il carbonio rilasciato durante la combustione del pellet per la produzione di elettricità può quindi essere sequestrato e immagazzinato nei nuovi alberi. Ma usare gli alberi a legno duro delle golene dà un diverso calcolo del carbonio, dice Abt. Usare queste specie di alberi richiede un tempo molto più lungo per compensare il carbonio rilasciato, in quanto il legno duro delle golene cresce più lentamente. Abt evidenzia anche che le foreste dei piani alluvionali, che appartengono tipicamente a piccoli proprietari, tendono a non aderire agli standard di certificazione della sostenibilità. La rigenerazione nelle golene tende anche ad essere più variabile e dipende dalle condizioni idrologiche locali.

Quando un impianto di triturazione consuma quasi un milione di tonnellate di legno all'anno, è difficile tracciare da dove venga ogni singolo albero, secondo Abt ed altri esperti. Ma la Forisk, una società di consulenze che traccia le tendenze dell'industria forestale, calcola che la maggioranza del legno usato nell'impianto di Ahoskie della Enviva provenga da alberi a legno duro – compresi quelli che si trovano tipicamente nelle foreste delle zone umide. Generalmente, gli impianti di triturazione del pellet nel North Carolina e in Virginia dipendono più da questi legni duri che crescono più lentamente, mentre in Georgia, per esempio, si utilizzano principalmente piantagioni di pini, dice Abt. Queste due diverse classi di alberi sono “su lati opposti dello spettro”, quando si tratta di gestione forestale e di quanto carbonio viene rilasciato e sequestrato, osserva. Se l'industria del legname nel sudest degli Stati Uniti raccoglie tutti i rami, le radici e altri scarti di alberi ed usa quel legno per fare pellet, William Schlesinger, che è presidente emerito dell'Istituto Cary di Studi dell'Ecosistema e biogeochimico che studia i cicli del carbonio, non avrebbe problemi con essa. Il problema, dice, è quando i pellet sono fatti con legno duro vergine e di seconda crescita.

“La prova migliore che abbiamo è che non tutto il pellet proviene dagli scarti di legno e che crea un deficit di carbonio”, dice Schlesinger, che è stato uno degli scienziati che ha scritto una lettera all'EPA (Environmental Protection Agency) invitando l'agenzia a creare forti standard di inquinamento per l'energia da biomasse. Schlesinger indica le foto aeree distribuite dal Southern Environmental Law Center che mostrano querce di grande diametro e noci americani abbattuti per la produzione di pellet di legna nell'impianto di Ahoskie della Enviva. Uno studio dell'impianto di Ahoskie commissionato dal Southern Environmental Law Center e dalla National Wildlife Federation ha scoperto che più del 50% delle probabili zone di approvvigionamento dell'impianto di Ahoskie sono le foreste delle zone umide. Più di 168.000 acri di foresta delle zone umide sono a rischio di essere tagliate per produrre pellet solo in questo impianto, ha detto lo studio. Il NRDC sta attualmente intraprendendo uno studio usando dati GPS per mappare i punti caldi in cui gli impianti di pellet hanno gli impatti maggiori attraverso gli Stati Uniti sudorientali. Il gruppo pensa di pubblicare lo studio questa primavera, sottolineando il disboscamento intorno agli impianti di produzione del pellet.

Schlesinger dice che i calcoli recenti in cui sono stati usati i dati della EIA e della IEA mostrano che bruciare pellet produce grandi impatti sulle foreste per quantità molto modeste di bioenergia. Per esempio, la IEA prevede che per produrre il 6,4% dell'elettricità globale bruciando biomassa legnosa nel 2035, il raccolto globale di alberi commerciali – tutti gli alberi abbattuti eccetto la legna tradizionale – dovrebbe aumentare del 137%. Non sono solo le società di servizi europee che potrebbero finire per bruciare pellet su scala industriale. Hammel, del NRDC, osserva la possibilità di un passaggio significativo alla combustione di legno in modo commerciale qui negli Stati uniti, a seconda di come l'EPA degli Stati Uniti decida di conteggiare le emissioni di gas serra dalle centrali che bruciano biomasse. “Sarebbe un errore per l'EPA dare ai produttori di energia da biomasse un lasciapassare sulla responsabilità del carbonio”, dice Hammel. “Abbattere e bruciare alberi per l'energia è un passo nella direzione sbagliata per il clima e per le nostre foreste”.



domenica 7 agosto 2011

Il cuculo che non voleva cantare. Sostenibilità e cultura giapponese


Parecchi elementi della cultura giapponese ormai hanno fatto presa stabile in occidente. Uno è il Judo (la foto qui sopra raffigura Kano Jigoro, il fondatore del Judo moderno) ma ce ne sono molti ancora nelle arti figurative, in letteratura, in filosofia e in altri campi. In questo post discuto su cosa possiamo apprendere dalla cultura giapponese in termini di sostenibilità, con particolare riferimento al “periodo Edo” (più o meno dal 1600 d.C. a metà del 19° secolo). La società giapponese di quel periodo è uno dei pochi esempi storici che abbiamo di “economia di stato stazionario”. Come fecero i giapponesi a raggiungerlo? Qui suggerisco una spiegazione, basandomi sull’antico racconto giapponese del “cuculo che non voleva cantare”.

Questa è la versione di un discorso che ho tenuto al “Kosen Dojo” a Firenze il 26 marzo 2011. Non è una trascrizione letterale, piuttosto è un testo scritto a memoria in cui cerco di mantenere lo stile di una presentazione orale. Questo post è apparso in inglese su "Cassandra's Legacy" il 6 Aprile 2011. Traduzione in Italiano di Girolamo Dininno. 


Signore e signori, prima di tutto lasciatemi dire che nella mia carriera ho tenuto molte presentazioni su energia e sostenibilità, ma questa è la prima volta che mi capita di farlo seduto a gambe incrociate a terra su un tappeto giapponese, un tatami. Però, lasciatemi aggiungere che è un vero piacere farlo, ed è un piacere speciale farlo in un dojo, ai piedi del ritratto di Kano Jigoro, il fondatore del Judo moderno. Effettivamente sono stato anch’io un judoka, anche se devo dire che non pratico da un po’. Insomma questo posto mi ricorda moltissimo il Giappone, dove ho vissuto e sono stato molto bene, anni fa; e come sapete i recenti avvenimenti di Fukushima hanno sollevato il problema dell’energia e della sostenibilità in Giappone e nel mondo intero.

Il popolo giapponese ha subito più sofferenze di qualunque altro a causa della nostra cattiva gestione dell’energia atomica. Quella del bombardamento di Hiroshima e Nagasaki, nel 1945, è triste storia. Magari qualcuno di voi ha avuto la possibilità di visitare queste città – io le ho visitate entrambe, e vi posso dire che la memoria di quegli eventi non è qualcosa che si riesce a ignorare facilmente. Ovviamente, al confronto l’incidente nucleare di Fukushima è stato cosa da poco. Ma rimane che è difficile per noi – intendo noi umanità – gestire l’energia nucleare. Forse è semplicemente una cosa troppo grande e complessa.

Comunque, lasciamo perdere i pro e i contro dell’energia atomica; non è di questo che voglio discutere con voi oggi. Piuttosto, credo che possiate essere interessati a parlare un po’ della cultura giapponese. Il semplice fatto che siamo tutti seduti sul pavimento su un tatami giapponese vuol dire che la cultura del Giappone ha un’influenza su di noi, proprio come ha avuto influenza sulla cultura occidentale in molti campi – pensate solo ai manga! Perciò, quello che vorrei fare oggi è discutere di ciò che possiamo imparare dal Giappone in termini di sostenibilità.

Lasciatemi cominciare con qualche parola sulla storia del Giappone. Conoscete sicuramente il periodo “Heian” o “Imperiale”, iniziato tanto tempo fa: questo fu il periodo “classico” della storia giapponese. Il periodo Heian ha poi lasciato il campo a un’età di guerre civili: il sengoku jidai, l’epoca dei Samurai. Diversi film l’hanno dipinto come un’epoca romantica, ma sono sicuro che la gente che ci viveva non la trovava molto romantica; era un periodo di continue battaglie, e doveva essere parecchio dura per tutti. Ad ogni modo, questa fase storica finì quando Tokugawa Ieyasu emerse da vincitore delle guerre e divenne shogun, reggente di tutto il Giappone. Questo succedeva intorno all’anno 1600, e cominciò allora il periodo “Edo”, che fu molto più tranquillo. Il periodo Edo durò finché il Commodoro Perry non arrivò con le sue “navi nere” a metà del 19° secolo, il che diede inizio all’età moderna.

Ora, i due secoli e mezzo del periodo Edo sono molto interessanti dal punto di vista della sostenibilità. Non fu solo un periodo di pace; fu anche un’epoca di economia stabile e popolazione stabile. In effetti, non è del tutto vero, perché la popolazione del Giappone aumentò nella prima parte del periodo Edo; ma arrivata a 30 milioni restò quasi costante per circa due secoli. Non ho notizia di altre società nella storia che hanno vissuto un simile periodo di stabilità. Era un esempio di quel che oggi chiamiamo “economia di stato stazionario”.

Il motivo per cui la maggior parte delle civiltà non riescono a raggiungere uno stato stazionario è che è troppo facile sovrasfruttare l’ambiente. E’ qualcosa che non ha a che fare solo con i combustibili fossili: è tipico anche delle società agricole. Se tagliate troppi alberi, il suolo fertile viene lavato via dalla pioggia. E poi, senza terra fertile da coltivare, la gente muore di fame. Il risultato è il collasso – una caratteristica comune di gran parte delle civiltà del passato. Qualche anno fa, sull’argomento Jared Diamond ha scritto un libro, intitolato proprio “Collasso”.

C’è un punto interessante di Diamond a riguardo delle isole. In un’isola, dice Diamond, ci sono risorse limitate – molto più limitate che sul continente – e le opzioni a disposizione sono limitate di conseguenza. Quando sei a corto di risorse, mettiamo di terreno fertile, non puoi emigrare e non puoi attaccare i vicini per ottenere risorse da loro. Puoi solo adattarti, o perire. Diamond cita diversi casi di piccole isole nell’oceano Pacifico in cui l’adattamento era molto difficile ed i risultati sono stati drammatici, come nel caso dell’isola di Pasqua. In alcune isole davvero piccole, adattarsi è risultato talmente difficile che gli esseri umani sono semplicemente scomparsi. Sono morti tutti, e basta.

Il che ci porta al caso del Giappone: che è un’isola, naturalmente, anche se grande. Ma alcuni dei problemi che si avevano con le risorse dovevano essere gli stessi di tutte le isole. Il Giappone non possiede molto in termini di risorse naturali. Moltissima pioggia, per lo più, ma poco altro, e la pioggia può fare molti danni se le foreste non sono ben amministrate. E ovviamente in Giappone lo spazio è limitato, il che significa che c’è un limite alla popolazione; almeno finché essa dipende dalle risorse locali. Io credo che a un certo punto nel corso della storia i giapponesi abbiano raggiunto il limite massimo di quel che potevano fare con lo spazio a disposizione. Ovviamente ci volle del tempo: il ciclo è stato molto più lungo che su una piccola isola come l’isola di Pasqua. Ma potrebbe perfettamente essere che le guerre civili furono una conseguenza del fatto che la società avesse raggiunto un limite. Quando non c’è abbastanza per tutti, le persone tendono a combattere fra di loro, ma è ovvio che non sia questo il modo migliore per gestire la scarsità di risorse. Perciò, a un certo punto i giapponesi dovettero smettere di lottare, dovevano adattarsi o morire – e si adattarono alle risorse che avevano. Era l’inizio del periodo Edo.

Per arrivare a uno stato stazionario, i giapponesi dovevano gestire al meglio le risorse a disposizione, ed evitare di sprecarle. Una cosa che fecero fu liberarsi degli eserciti del periodo delle guerre. La guerra è semplicemente troppo costosa per una società a stato stazionario. Poi, fecero grossi sforzi per mantenere le foreste ed incrementarle. Potete leggere qualcosa a riguardo nel libro di Diamond. Il carbone di Kyushu forse aiutò un po’ a risparmiare gli alberi, ma il carbone da solo non sarebbe stato abbastanza – fu la gestione delle foreste a fare la differenza. Il governo amministrava i boschi a livello di singola pianta: un’impresa notevole. Infine, i giapponesi riuscirono a gestire la popolazione. Probabilmente fu questa la parte più difficile, in un tempo che non conosceva contraccettivi. Da quel che ho letto, ho capito che i poveri erano obbligati a praticare più che altro l’infanticidio, e questo doveva essere atroce per i giapponesi, come sarebbe per noi oggi. Ma le conseguenze del lasciar crescere la popolazione senza controllo sarebbero state terribili: per cui, erano costretti a farlo.

Noi tendiamo a vedere l’economia a stato stazionario come qualcosa di molto simile alla nostra società, solo un po’ più tranquilla. Ma il periodo Edo del Giappone era molto diverso. Di certo non era il paradiso in terra. Era una società estremamente regolata e gerarchica, in cui sarebbe stato difficile trovare – o anche solo immaginare – qualcosa come “la democrazia” o “i diritti umani”. Nonostante ciò, il periodo Edo fu una realizzazione notevole, una società molto raffinata e ricchissima di cultura. Una civiltà di artigiani, poeti, artisti e filosofi. Creò alcuni dei tesori d’arte che possiamo ammirare ancora oggi, dalle spade katana alla poesia di Basho.

Insomma, i giapponesi ce la fecero a creare una società estremamente raffinata che riuscì a esistere in uno stato stabile per più di due secoli. Non credo che nella storia ci siano molti casi paragonabili. Perché il Giappone ebbe successo dove molte altre civiltà nella storia avevano fallito? Be’, penso che il fatto di essere un’isola fosse un enorme vantaggio. Questo proteggeva da gran parte delle ambizioni dei popoli confinanti, e anche dalla tentazione che potevano avere gli stessi giapponesi di invadere i loro vicini. E se non hai una terribile paura di essere invaso (e non hai intenzioni di invadere nessuno), allora non hai motivo di mantenere un grosso esercito, né di far crescere la popolazione. Puoi concentrarti sulla sostenibilità e sulla gestione di quel che hai a disposizione. Poi, naturalmente, quando il Commodoro Perry e le sue navi nere arrivarono, il Giappone non fu più un’isola, nel senso che smise di essere isolato dal resto del mondo. Così la crescita ripartì. Ma, finché il Giappone restò isolato, l’economia rimase in uno stato stazionario e, come ho detto, questa era una conquista straordinaria.

Però non credo che il fatto di essere un’isola spieghi tutto del periodo Edo. Io penso che esso non sarebbe stato possibile senza un certo grado di saggezza. O forse un termine più corretto in questo caso è “sapienza”.

La saggezza o la sapienza non sono cose che si possano quantificare o attribuire a persone specifiche. Ma io ritengo che il Giappone, nella sua interezza, aveva raggiunto un certo livello di – diciamo così – “illuminazione”. Comprendetemi: mi riferisco al periodo Edo. So bene che oggi il Giappone è pieno di posti orribili come la maggior parte dei luoghi del mondo occidentale: inquinato, sovraffollato e pieno di costruzioni bruttissime. Però nel periodo Edo si era sviluppato un modo di guardare il mondo che ancora ammiriamo oggi, e che è secondo me ben rappresentato dalla poesia giapponese: un prodigio di luminosità, di percezione dei dettagli, di amore per le piccole e delicate cose del mondo càduco. Ma non è solo la poesia: pensate al Judo secondo il maestro Kano. E’ un modo di vivere: una filosofia, una maniera di acquisire saggezza. Il Judo è un’idea moderna, ovviamente, ma ha le sue origini nel periodo Edo. Per quello che posso capire, l’approccio giapponese di quell’epoca era quanto di più lontano può esserci dall’atteggiamento orrendo che abbiamo noi oggi, quello del golem chiamato homo economicus che pensa seriamente che un albero non abbia valore a meno che non sia abbattuto. Se è questo il modo con cui guardiamo il mondo, allora meritiamo di collassare e scomparire. La saggezza probabilmente non è una risorsa non rinnovabile, ma sembra che siamo comunque riusciti a restarne senza.

Vorrei raccontarvi una storia proveniente dalla saggezza giapponese; ha a che fare con l’epoca delle guerre civili ma fu sicuramente inventata durante il più tranquillo periodo Edo. Probabilmente conoscete i nomi dei principali condottieri dell’ultima fase delle guerre civili in Giappone: Oda Nobunaga, Toyotomi Hideyoshi e Tokugawa Ieyasu. Alla fine, fu Ieyasu a diventare shogun e guida dell’intero paese. Sul come ci riuscì, c’è questa storiella che esiste in forma di senryu, una poesia breve. Racconta che un giorno Nobunaga, Hideyoshi e Ieyasu si incontrarono e videro un cuculo che non cantava. Nobunaga disse: “Se non canta, lo uccido”. Hideyoshi disse: “No, io lo convincerò a cantare”. E Ieyasu disse: “Io aspetterò, finché non canterà”.

Penso che questo racconto sia un’ottima rappresentazione di come la gente del periodo Edo razionalizzava gli eventi che portarono alla loro età. Ci dice che la strategia vincente non è la violenza, e nemmeno la furbizia: bensì è l’adattamento. I giapponesi avevano capito che non potevano forzare o persuadere la loro isola a comportarsi come essi desideravano, proprio come non si può forzare o convincere un cuculo a cantare. Dovevano adattarsi, e lo fecero. Questa, io credo, è saggezza.

Ora, una caratteristica della saggezza è che si può applicare a diverse situazioni, diversi luoghi, diversi tempi. Vediamo un po’ come possiamo interpretare il racconto nella nostra epoca. Abbiamo enormi problemi ovviamente: non abbiamo abbastanza petrolio, non abbiamo abbastanza risorse minerali, né abbastanza acqua, né atmosfera per assorbire i residui della combustione. Come reagiamo allora? Be’, un po’ come Nobunaga. Siamo propensi a usare la violenza, non solo in termini di “guerre per il petrolio”. Cerchiamo di forzare il pianeta a produrre quel che desideriamo. In un certo senso, è come dire all’uccello “canta, o ti ammazzo”. Insomma, è il “drill, baby drill!”, è la volontà di fare di tutto e con qualunque mezzo per produrre i combustibili liquidi di cui siamo convinti di avere assoluto bisogno, anche se così distruggeremo la terra e l’atmosfera. Vogliamo costruire centrali atomiche, incuranti dei rischi connessi, e fare un mucchio di altre cose per forzare il pianeta a produrre ciò di cui crediamo avere la necessità.

Poi c’è un diverso atteggiamento in apparenza più civile: è l’efficienza. Esso dice che, se riusciamo a convincere la gente ad usare le risorse in maniera più efficiente, possiamo continuare ad avere tutto quello cui siamo abituati ed in più salvare il pianeta. Le lampade a risparmio energetico e le auto di dimensioni più piccole di certo appaiono molto meglio, come idea, del “drill, baby, drill”; ma in fondo il concetto non è tanto diverso, nel senso che non vogliamo cambiare rispetto a ciò che pensiamo sia per noi indispensabile. Il modello di vita americano resta apparentemente non negoziabile: solo il modo di ottenerlo potrebbe forse esserlo. Questa strategia potrebbe addirittura funzionare – almeno per un po’. Ma riusciremo davvero a trovare delle soluzioni tecnologiche per avere, tutti, tutto quello cui siamo abituati? Il recente disastro di Fukushima dovrebbe averci insegnato che non siamo così furbi come possiamo pensare.

Non siamo ancora giunti al punto in cui scopriremo che la strategia vincente non è forzare né persuadere la Terra a dare più di quanto possa. La strategia vincente consiste nell’adattamento. Abbiamo la necessità di ritarare i nostri bisogni in base a quanto il pianeta può offrire. E’ quello che i giapponesi fecero sulla loro isola; e in fondo tutti noi viviamo su un’isola, un’isola gigante, sferica e blu che vaga nell’oscurità dello spazio. Sta a noi gestire i doni che riceviamo dalla Terra e creare qualcosa di bello come la civiltà Edo in Giappone; certamente con metodi migliori e più dolci per il controllo della popolazione.

Se l’esempio storico del Giappone conta qualcosa, forse siamo nella giusta direzione, e l’età delle guerre civili planetarie potrà finire prima o poi. Allora, se riusciamo ad aspettare abbastanza, un giorno anche noi potremo sentire il cuculo cantare.



Ringraziamenti: grazie a Jacopo Visani e Niccolò Giannetti per l’organizzazione dell’incontro al Kosen Dojo dove ho tenuto questo discorso.