domenica 12 gennaio 2014

Michael Klare: il picco del petrolio è morto, lunga vita al picco del petrolio!

Da “Tomdispatch”. Traduzione di MR

Eccoci qua in un “vortice polare” da record con le Everglades della Florida che stanno per congelare e il Minnesota che registra venti freddi di -60°F. Questi sistemi meteorologici più estremi, che dovrebbero scaldare i cuori dei negazionisti climatici, potrebbero di fatto risultare essere collegati al cambiamento climatico (grazie ad un Artico in fusione che si scalda il doppio più velocemente del resto del pianeta – vedi video della Casa Bianca). Nel frattempo, dall'altra parte del mondo, l'Australia ha vissuto un'impressionante ondata di calore, essendo appena uscita da un anno che ha avuto il giorno, la settimana e il mese più caldi e la media generale più alta mai registrata in quel continente. Tuttavia, diamo ai negazionisti climatici ciò che è loro dovuto. E' da tanto che dichiarano che la scienza del clima sia, al massimo, un'attività incline all'errore. E' un punto col quale il professor Steven Sherwood è d'accordo. Risulta che sia l'autore di uno studio appena apparso sulla rivista Nature focalizzato sulla copertura nuvolosa e sul cambiamento climatico futuri. Lo studio conclude che il pianeta si scalderà più rapidamente di quanto previsto, come minimo raggiungendo i +4°C per il 2100 (il che, naturalmente, significherebbe una catastrofe inimmaginabile). Ecco il suo modo di dare ai negazionisti ciò che è loro dovuto: “Agli scettici del clima piace criticare i modelli climatici perché interpretano male le cose e noi siamo i primi ad ammettere che non sono perfetti, ma quello che stiamo scoprendo è che gli errori vengono fatti da quei modelli che prevedono meno riscaldamento, non da quelli che ne prevedono di più”.

Nel frattempo, l'anno appena trascorso è stato generalmente un anno monotono nella nuova era del cambiamento climatico. Anche se i risultati finali non saranno disponibili fino a marzo, sarà fra i 10 anni più caldi da quando sono state registrate per la prima volta le temperature, più o meno fra il quarto e il settimo. (A proposito, i 10 anni più caldi sono stati tutti dal 1998, nove nell'ultimo decennio). Per la prima volta nella storia, il pianeta ha brevemente e minacciosamente raggiunto le 400 ppm di CO2 atmosferico; gli oceani diventano più acidi; le siccità e gli incendi si sono rafforzati; le tempeste hanno imperversato, anche se solo una ha raggiunto proporzioni epiche, il Tifone Haiyan nelle Filippine; il ghiaccio marino estivo dell'Artico ha avuto una grande fusione (significativamente al di sopra dei livelli del ventesimo secolo, ma meno del 2012); la copertura dei media sul cambiamento climatico è aumentata in modo modesto per la prima volta in anni e ed uno dei maggiori cavalli di battaglia del movimento del negazionismo climatico – la supposta “pausa del riscaldamento” che sta attraversando il pianeta – è finita nel cesso. Nel frattempo, le previsioni stanno cominciando ad arrivare e suggeriscono che – se si sviluppa un fenomeno de El Niño nell'Oceano Pacifico, come credono alcuni scienziati – il 2014 potrebbe rivelarsi da guinness dei primati. Con l'inizio dell'anno sappiamo di più su cosa ci riserva il futuro in qualche modo con maggiore certezza e, parlando in generale, visto che continuano ad essere immesse quantità record di biossido di carbonio nell'atmosfera, facciamo decisamente poco per questo. Per adattare quell'esempio classico sui limiti della libertà di espressione, immaginate che una grande squadra di scienziati ora stia continuamente gridando “Al fuoco!” nel cinema globale e, come risultato, più piromani con fiamme ossidriche stiano arrivando in continuazione. Dopotutto, di quelli che non fanno niente per il cambiamento climatico, nessuno ne sta facendo di più delle compagnie petrolifere e delle nazioni – dall'Arabia Saudita alla Russia – che sono di fatto gigantesche compagnie petrolifere. Come indica Michael Klare nel suo ultimo post, l'urgenza dei giganti petroliferi e dei loro sostenitori di dichiarare che non ci sono limiti al futuro dell'estrazione di petrolio e gas naturale è, perlomeno, agghiacciante, in un pianeta che si scalda. Sembrano intenti a dare alla frase “Il limite è il cielo” un nuovo, torvo significato. Per fortuna, come il nostro esperto interno di energia evidenzia, potrebbero avere una sorpresa o due nel percorso. Tom

Forse il necrologio per il picco del petrolio potrebbe essere arrivato troppo presto


Di Michael T. Klare

Fra le grandi storie sull'energia del 2013, il “picco del petrolio” - la nozione un tempo popolare secondo al quale il produzione mondiale avrebbe presto raggiunto un livello massimo e sarebbe iniziato un declino irreversibile – è stata completamente screditata. Lo sviluppo esplosivo del petrolio da scisto ed di altri combustibili non convenzionali negli Stati Uniti ha aiutato a deporlo nella sua tomba.

Mentre l'anno andava avanti, i necrologi si sono susseguiti in modo rapido e furioso. “Oggi, è probabilmente sicuro dire che abbiamo ucciso il 'picco del petrolio' una volta per tutte, grazie alla combinazione di nuove tecniche di produzione di petrolio e gas da scisto”, ha dichiarato Rob Wile, un giornalista energetico ed economico di Business Insider. Commenti analoghi di esperti energetici sono stati comuni, portando a un titolo da requiem su Time.com , annunciando che “Il picco del petrolio è morto”.

Non così in fretta, però. L'attuale giro di necrologi ricordano la famosa frase di Mark Twain: “La notizia della mia morte è stata fortemente esagerata”. Prime che i necrologi per la teoria del picco del petrolio si ammucchino troppo, diamo uno sguardo accurato a queste asserzioni. Fortunatamente, la International Energy Agency (IEA), il braccio armato della grandi potenze industrializzate con sede a Parigi, di recente lo ha fatto – e i risultati sono stati inattesi. Pur non reinsediando il picco del petrolio nel suo trono, ha reso chiaro che gran parte del parlare del pozzo petrolifero perpetuo del petrolio di scisto americano è ampiamente esagerato. Lo sfruttamento di quelle riserve di scisto potrebbero ritardare l'inizio del picco del petrolio pr un anno o giù di lì, osservano gli esperti dell'agenzia, ma il quadro a lungo termine “non è cambiato granché con l'arrivo del [petrolio di scisto]”.

Il punto di vista della IEA su questo tema e particolarmente degno di nota a perché le sue affermazioni di solo un anno fa, secondo le quali gli Stati Uniti avrebbero superato l'Arabia Saudita diventando i principali produttori di petrolio, hanno inizialmente scatenato il diluvio del “picco del petrolio è morto”. Scrivendo nell'edizione del 2012 del suo World Energy Outlook, l'agenzia ha dichiarato non solo che “è previsto che gli Stati Uniti diventino i più grandi produttori di petrolio al mondo” circa nel 2020, ma anche che con la produzione da scisto degli Stati Uniti e delle sabbie bituminose canadesi che entrano in produzione, “il Nord America diventa un esportatore netto di petrolio nel 2030”.

Quello stesso rapporto del novembre del 2012 sottolineava di tecnologie di produzione avanzate – cioè la perforazione orizzontale e la fratturazione idraulica (“fracking”) - per estrarre petrolio e gas naturale dalla roccia un tempo inaccessibile, specialmente lo scisto. Il rapporto copriva anche lo sfruttamento progressivo del bitume canadese (sabbie bituminose o sabbie petrolifere), un'altra risorsa ritenuta precedentemente troppo proibitiva per essere economica da sviluppare. Con la produzione di questi ad altri combustibili "non convenzionali" pronti ad esplodere nei prossimi anni, suggeriva il rapporto, il lungamente atteso picco della produzione mondiale di petrolio poteva essere rimandata a lungo nel futuro.

La pubblicazione dell'edizione del 2012 del World Energy Outlook ha innescato una frenesia globale di segnalazioni speculativa, gran parte della quale annunciava una nuova era di abbondanza energetica per l'America. “America Saudita” è stato il titolo su un osanna del genere del Wall Street Journal. Citando il nuovo studio della IEA, quel saggio annunciava “un boom energetico per gli Stati Uniti” portato dalla “innovazione tecnologica e dal rischio d'impresa finanziato da capitale privato”. Da quel momento in poigli analisti americani dell'energia hanno parlato entusiasticamente delle capacità di una serie di nuove tecnologie estrattive, in particolare del fracking, di liberare il petrolio e il gas naturale da formazioni di scisto fino a quel momento inaccessibili. “Questa è una vera rivoluzione energetica”, proclamava il quotidiano.

Ma questo è successo allora. L'edizione più recente del World Energy Outlook, pubblicata lo scorso novembre, è stata molto più circospetta. Sì, il petrolio di scisto, le sabbie bituminose ed altri combustibili non convenzionali si aggiungeranno alle forniture globali nei prossimi anni e, sì, la tecnologia aiuterà a prolungare la vita del petrolio. Ciononostante, è facile dimenticare che stiamo anche assistendo all'esaurimento in blocco dei giacimenti mondiali esistenti e quindi tutti questi aumenti nella produzione da scisto deve essere controbilanciata dai declini della produzione convenzionale. In circostanze ideali – alti livelli di investimento, continui progressi tecnologici, domanda e prezzi adeguati – potrebbe essere possibile evitare un imminente picco della produzione mondiale, ma l'ultimo rapporto della IEA chiarisce, non c'è alcuna garanzia che questo avverrà.

Approssimarsi gradatamente al picco

Prima di immergerci in profondità nella valutazione della IEA, diamo uno sguardo rapido alla teoria del picco del petrolio in sé.

Per come è stata sviluppata negli anni 50 dal geologo petrolifero M. King Hubbert, la teoria del picco del petrolio sostiene che ogni singolo giacimento petrolifero (o paese produttore di petrolio) sperimenterà un alto tasso di crescita della produzione durante lo sviluppo iniziale, quando le perforazioni vengono introdotte per la prima volta in una riserva che contiene petrolio. In seguito, la crescita rallenterà, in quanto le risorse più prontamente accessibili sono state estratte e dev'essere fatto affidamento su depositi meno produttivi. A questo punto – di solito quando sono state estratte metà delle risorse di un giacimento (o di un paese) – la produzione quotidiana raggiunge un livello massimo, o “picco”, e poi comincia a calare, Naturalmente, il giacimento o i giacimenti continueranno a produrre anche dopo il picco, ma saranno richiesti sempre più sforzi e spese per estrarre ciò che rimane. Alla fine, il costo di produzione eccederà i proventi delle vendite e l'estrazione sarà conclusa.

Per Hubbert ed i suoi seguaci, l'ascesa e il declino dei giacimenti petroliferi è una conseguenza inevitabile di forze naturali: il petrolio si trova in giacimenti sotterranei pressurizzati e quindi verrà spinto verso la superficie quando viene fatta una perforazione nel terreno. Tuttavia, una volta che una parte significativa delle risorse in quel giacimento sono state estratte, la pressione del giacimento scenderà e serviranno mezzi artificiali – acqua, gas, o inserimenti artificiali – per ripristinare la pressione e sostenere la produzione. Prima o poi, tali mezzi diventano costosi in modo proibitivo.

La teoria del picco del petrolio sostiene che ciò che è vero per un singolo giacimento, o serie di giacimenti, sia vero per il mondo nel suo insieme. Fino a circa il 2005, sembrava infatti che il mondo stesse finendo sempre più vicino ad un picco della produzione giornaliera di petrolio, come i seguaci di Hubbert avevano a lungo previsto. (Hubbert è morto nel 1989). Diversi sviluppi recenti hanno, tuttavia, sollevato domande sulla precisione della teoria. In particolare le grandi compagnie petrolifere private hanno preso ad impiegare tecnologie avanzate per aumentare la produzione dei giacimenti sotto il loro controllo, allungando la vita dei giacimenti esistenti attraverso l'uso di ciò che viene chiamato “maggior recupero di petrolio” (o EOR, nell'acronimo inglese). Le compagnie hanno anche usato nuovi metodi per sfruttare i giacimenti un tempo considerati inaccessibili in luoghi come l'Artico e le profonde acque oceaniche, aprendo così la possibilità di un futuro meno Hubbertiano.

Sviluppando queste nuove tecnologie, le “compagnie petrolifere internazionali” (IOC) di proprietà privata cercavano di superare il loro principale handicap: gran parte del “petrolio facile” del mondo – la cosa sulla quale si è concentrato Hubbert e che sgorga ogni qualvolta vien fatta una perforazione – è già stata consumata o è controllata da “compagnie petrolifere nazionali” (NOC) di proprietà dello stato, comprese la saudita Aramco, la Compagnia Petrolifera Nazionale Iraniana e la kuwaitiana Compagnia Petrolifera Nazionale, fra le altre. Secondo la IEA, queste compagnie di stato controllano circa l'80% delle riserve conosciute mondiali di petrolio, lasciando relativamente poco da sfruttare alle IOC.

Per aumentare la produzione dalle riserve limitate ancora sotto il loro controllo – principalmente dislocate in Nord America, nell'Artico e nelle acque adiacenti – le ditte private hanno lavorato sodo per sviluppare tecniche di sfruttamento del “petrolio difficile”. In questo, hanno avuto un grande successo: ora stanno portando nuovi flussi di petrolio nel mercato e, facendo questo, hanno scosso le fondamenta della teoria del picco del petrolio.

Coloro che dicono che il “picco del petrolio è morto” citano proprio questa combinazione di fattori. Allungando la vita dei giacimenti esistenti attraverso l'EOR e aggiungendo intere nuove fonti di petrolio, l'offerta globale può essere estesa all'infinito. Di conseguenza, dicono, il mondo possiede una “fornitura relativamente infinita” di petrolio (e gas naturale). Questo, per esempio, è stato il modo in cui Barry Smitherman della Commissione Ferroviaria del Texas (che regola l'industria petrolifera di stato) ha descritto la situazione globale ad un recente incontro della Società dei Geofisici di Esplorativi.

Il picco della tecnologia

Al posto del picco del petrolio, quindi, c'è una nuova teoria che non ha ancora un nome, ma che si potrebbe chiamare tecno dinamismo. Non c'è limite fisico, sostiene questa teoria, all'offerta globale di petrolio finché l'industria petrolifera è preparata, e gli viene consentito, ad applicare la propria stregoneria allo scopo di trovare e produrne di più. Daniel Yergin, autore dei classici dell'industria Il premio e La ricerca, è un sostenitore chiave di questa teoria. Ha recentemente riassunto la situazione in questo modo: “I miglioramenti tecnologici raggiungono risorse che non erano fisicamente accessibili e le trasformano in riserve recuperabili”. Di conseguenza, ha aggiunto, “le stime della riserva globale di petrolio continuano a crescere”.

Da questo punto di vista, l'offerta mondiale di petrolio è essenzialmente sconfinata. In aggiunta al petrolio “convenzionale” - quello che sgorga dal terreno – la IEA identifica 6 flussi potenziali di liquidi petroliferi: liquidi del gas naturale; sabbie bituminose e petrolio super pesante; petrolio da cherogene (solidi petroliferi derivati dallo scisto che devono essere fusi per diventare utilizzabili); petrolio di scisto; liquidi da carbone (CTL) e  liquidi da gas (GTL). Insieme, questi flussi “non convenzionali” potrebbero teoricamente aggiungere diversi trilioni di barili di petrolio potenzialmente recuperabile all'offerta globale, estendendo plausibilmente l'era del petrolio per centinaia di anni (e nel processo, attraverso il cambiamento climatico, trasformando il pianeta in un deserto inabitabile).

Ma proprio come il picco del petrolio aveva delle serie limitazioni, così le ha anche il tecno dinamismo. Al suo centro c'è la convinzione che la domanda mondiale di petrolio in aumento continuerà ad alimentare gli investimenti sempre più costosi nelle nuove tecnologie richieste per sfruttare le risorse di petrolio difficili da ottenere che rimangono. Come suggerito nell'edizione del 2013 del World Energy Outlook della IEA, tuttavia, questa convinzione dovrebbe essere trattata con un considerevole scetticismo.
Fra le sfide principali a questa teoria ci sono:

1. Aumento dei costi tecnologici: Mentre i costi per sviluppare una risorsa normalmente declinano nel corso del tempo mentre l'industria acquisisce esperienza con le tecnologie coinvolte, La legge di Hubbert dell'esaurimento non se ne va. In altre parole, le ditte petrolifere sviluppano invariabilmente le risorse di “petrolio difficile” più facili, lasciando le più difficili (e più costose) per dopo. Per esempio, lo sfruttamento delle sabbie bituminose del Canada è cominciato con la fascia mineraria di depositi vicini alla superficie. Siccome questi si stanno esaurendo, tuttavia, le ditte energetiche ora stanno inseguendo le riserve sotterranee profonde usando tecnologie di gran lunga più costose. Analogamente, molti dei depositi più abbondanti di petrolio di scisto in Nord Dakota ora sono stati esauriti, richiedendo un aumentato ritmo di trivellazioni per mantenere i livelli di produzione. Di conseguenza, riporta la IEA, il costo dello sviluppo di nuove risorse petrolifere aumenteranno continuamente: fino a 80 dollari al barile per il petrolio ottenuto usando tecniche avanzate di EOR, 90 dollari al barile per le sabbie bituminose e il petrolio extra pesante, 100 dollari o più per il cherogene o il petrolio Artico e 110 dollari per CTL e GTL. Il mercato potrebbe non essere in grado, tuttavia, di sostenere livelli così alti, mettendo in dubbio tali investimenti.

2. Crescente rischio politico e ambientale: Per definizione, le riserve di petrolio difficile sono dislocate in aree problematiche. Per esempio, un 13% stimato del petrolio mondiale non scoperto si trova nell'Artico, insieme al 30% del gas naturale non sfruttato. I rischi ambientali associati al loro sfruttamento nelle peggiori condizioni meteorologiche immaginabili diventeranno rapidamente più evidenti – e quindi, di fronte all'aumento del potenziale di sversamenti catastrofici in un Artico in fusione, aspettiamoci un aumento relativo dell'opposizione politica a tali perforazioni. Infatti, un recente aumento ha scatenato le proteste sia in Alaska sia in Russia, compreso il pluri-pubblicizzato tentativo del settembre 2013 degli attivisti di Greenpeace di scalare una piattaforma petrolifera russa in mare. Analogamente, l'espansione delle operazioni di fracking hanno provocato un aumento costante dell'attivismo anti-fracking. In risposta a tali proteste e ad altri fattori, le ditte petrolifere sono state costrette ad adottare norme di protezione ambientale sempre più stringenti, facendo aumentare ulteriormente il costo di produzione.

3. Riduzione della domanda legata al clima: Lo sguardo tecno-ottimista presume che la domanda di petrolio continuerà a salire, spingendo gli investitori a fornire i finanziamenti aggiuntivi necessari a sviluppare le tecnologie richieste. Tuttavia, mentre gli effetti di un cambiamento climatico dilagante accelerano, e probabile che sempre più entità politiche cerchino di imporre freni di un qualche tipo alla combustione di petrolio, sopprimendo la domanda – e scoraggiando così gli investimenti. Questo sta già accadendo negli Stati Uniti, dove aumenti obbligatori nell'efficienza degli standard di efficienza dei combustibili dei veicoli si prevede che riducano significativamente la domanda. La futura “distruzione della domanda” di questo tipo è destinata a imporre una pressione verso il basso sui prezzi del petrolio, diminuendo l'inclinazione degli investitori al finanziamento di nuovi e costosi progetti di sviluppo.

Combinate questi 3 fattori ed è possibile concepire un “picco della tecnologia”, non dissimile dal picco della produzione di petrolio originariamente immaginato da M. King Hubbert. Un tale tecno picco è probabile che accada quando le fonti “facili” di petrolio “difficile” siano state esaurite, gli oppositori del fracking e di altre sgradevoli forme di produzione abbiano imposto regolamenti ambientali restrittivi (e costosi) sulle operazioni di perforazione e la domanda globale sia diminuita sotto un livello sufficiente da giustificare investimenti in costose operazioni estrattive. A quel punto, la produzione globale di petrolio declinerà anche se le forniture son “sconfinate” e la tecnologia è ancora in grado di sbloccare più petrolio ogni anno.

Il picco del petrolio riconsiderato

La teoria del picco del petrolio, come concepita originariamente da Hubbert e dai suoi seguaci, era ampiamente governata da forze naturali. Come abbiamo visto, tuttavia, queste possono essere sopraffatte dall'applicazione di tecnologie sempre più sofisticate. Le riserve di energia un tempo considerate inaccessibili possono essere messe in produzione ed altre un tempo ritenute esaurite possono tornare in produzione; piuttosto che essere finite, le basi petrolifere mondiali ora sembrano virtualmente inesauribili.

Questo significa che la produzione globale di petrolio continuerà a salire, anno dopo anno, senza raggiungere un picco? Ciò appare improbabile. Quello che sembra di gran lunga più probabile è che assisteremo ad un lento assottigliamento della produzione nel prossimo decennio o due mentre i costi di produzione crescono e il cambiamento climatico – insieme all'opposizione alla strada scelta dai giganti dell'energia – prendono slancio. Alla fine, le forze che tendono a ridurre la disponibilità sovrasteranno quelle che favoriscono una maggiore produzione ed un picco della produzione stessa ne sarà il risultato, anche se non dovuto alle sole forze naturali.

Un tale risultato, infatti, è previsto in uno dei 3 possibili scenari energetici che gli esperti mainstream della IEA hanno tracciato nell'ultima edizione del World Energy Outlook. Il primo non prevede alcun cambiamento nelle politiche di governo nei prossimi 25 anni e vede la fornitura mondiale di petrolio salire da 87 a 110 milioni di barili al giorno per il 2035; il secondo prevede qualche tentativo di frenare le emissioni di carbonio e proietta quindi una produzione che raggiunge “solo” 101 milioni di barili al giorno per la fine del periodo di indagine.

E' la terza traiettoria, lo “Scenario 450”, che dovrebbe far sollevare le ciglia. Questo scenario prevede che si sviluppi uno slancio per un'azione globale per mantenere le emissioni di gas serra al di sotto delle 450 parti per milione – il livello massimo al quale sarebbe possibile evitare che le temperature medie globali salgano di 2°C (causando effetti climatici catastrofici). Di conseguenza, prevede un picco della produzione globale di petrolio intorno al 2020 a circa 91 milioni di barili al giorno, con un declino a 78 milioni di barili per il 2035.

Sarebbe prematuro suggerire che lo “Scenario 450” sarebbe il tracciato immediato per l'umanità, visto che è abbastanza chiaro che, al momento, ci troviamo su un'autostrada per l'inferno che si combina bene coi primi 2 scenari della IEA. Tenete in mente, inoltre, che molti scienziati credono che anche un aumento della temperatura di 2°C sarebbe sufficiente a produrre effetti climatici catastrofici. Ma mentre gli effetti del cambiamento climatico diventano più pronunciati nelle nostre vite, contate su una cosa: il clamore per un'azione da parte del governo diventerà più intenso e quindi alla fine è probabile che assisteremo a una qualche variante dello scenario 450 che prende forma. Nel processo, la domanda mondiale di petrolio sarà fortemente limitata, eliminando l'incentivo all'investimento in costosi nuovi schemi di produzione.

La linea di fondo: il picco globale del petrolio rimane nel nostro futuro, anche se non puramente per le ragioni date da Hubbert e dai suoi seguaci. Con la graduale sparizione del petrolio “facile”, le grandi ditte private sono costrette a sfruttare riserve sempre più difficili e fuori portata, portando quindi i costi di produzione ad aumentare e a scoraggiare potenzialmente nuovi investimenti in un tempo in cui il cambiamento climatico e l'attivismo ambientale sono in crescita.

Il picco del petrolio è morto! Lunga vita al picco del petrolio!

Michael T. Klare, un frequentatore regolare di TomDispatch, è un professore di studi sulla pace e la sicurezza mondiale al Hampshire College ed è autore, più di recente, de “La corsa a quel che è rimasto”, Una versione in forma di documentario del suo libro, “Sangue e petrolio” è disponibile presso il Media Education Foundation.

venerdì 10 gennaio 2014

Il grande soffocamento – avremo ossigeno sufficiente per respirare?

Da “Cassandra's Lagacy” Traduzione di MR

La concentrazione di ossigeno nell'atmosfera registrata all'osservatorio di Mauna Loa (link). Sta scendendo e la spiegazione ovvia è che è il risultato della combustione di combustibili fossili. Ma rischiamo di soffocare in questo modo? Fortunatamente è molto improbabile, almeno a breve termine. Tuttavia guardando “l'altra faccia” della storia dell'emissione di biossido di carbonio ci dà una buona prospettiva di cosa succede all'ecosistema a causa delle attività umane. 


Tutti siamo preoccupati per il riscaldamento globale, e giustamente. Tuttavia, c'è un altro aspetto del problema del riscaldamento: per ogni molecola aggiuntiva di biossido di carbonio (CO2) generata bruciando combustibili fossili deve essere consumata una molecola di ossigeno (O2). Ciò significa sempre meno ossigeno nell'atmosfera. Quindi, il soffocamento non sarà un problema in più dal riscaldamento globale? (alcuni sembrano essere davvero preoccupati del fatto che possa essere così).

Fortunatamente, la risposta è “no”. Non rischiamo di finire l'ossigeno, almeno non sul breve periodo. Ma la storia non è semplice e possiamo imparare molto su quanto sta succedendo alla nostra atmosfera, al nostro clima e al nostro ecosistema, se guardiamo la cosa nei dettagli.

Per prima cosa, cosa intendiamo per “soffocamento”? L'attuale concentrazione di ossigeno nell'atmosfera è del 21% in volume. Ci siamo evoluti per vivere con questo livello di ossigeno ed il livello minimo per gli esseri umani perché funzionino normalmente è intorno al 19% (Vedi qui). Siamo già nei guai al di sotto del 17% e proprio non possiamo sopravvivere al di sotto del 10%. Così, dobbiamo stare attenti a quello che facciamo della nostra atmosfera, non ci possiamo permettere di perdere più di un 1-2% dell'ossigeno che abbiamo.

Ora, quanto ossigeno abbiamo consumato bruciando combustibili fossili, finora? Non molto, in realtà. Keeling ha scoperto uno 0,0317% di riduzione nella concentrazione di ossigeno atmosferico dal 1990 al 2008. Chiaramente non soffocheremo, almeno non subito.

Ma dobbiamo andare più in profondità nel problema. Considerate che abbiamo bruciato combustibili fossili molto al lungo dal 1990. Possiamo approssimativamente calcolare la perdita totale considerando che la concentrazione del biossido di carbonio nell'atmosfera è aumentata di circa 120 ppm in volume durante l'ultimo secolo. Una quantità analoga è stata assorbita dagli oceani, quindi possiamo dire che abbiamo prodotto l'equivalente di circa 250 ppm di CO2 e quindi circa 250 ppm di ossigeno (0,025%) devono essere spariti. Ma siamo ancora bene all'interno dei limiti di sicurezza.

E in futuro? I risultati di Keeling ci dicono che, al tasso attuale, consumiamo circa lo 0,02% di ossigeno ogni 10 anni. Per arrivare vicini alla soglia di sicurezza del 1% ci vogliono secoli ma, naturalmente, non saremo in grado di continuare a bruciare combustibili fossili ai tassi attuali per così tanto tempo. Mentre ruzzoliamo dall'altra parte della curva di Hubbert, non saremo probabilmente in grado di fare di più che raddoppiare la quantità già emessa (e forse molto meno, secondo lo scenario di Seneca che vede il declino come molto più rapido della crescita). Persino nelle ipotesi più estreme, al massimo potremmo emettere non oltre quattro volte la quantità emessa finora. Ciò corrisponderebbe ad una perdita di circa lo 0,2% dell'ossigeno totale disponibile. Non trascurabile ma, per quanto ne sappiamo, non pericoloso.

Quindi, bruciare combustibili fossili decisamente non ci soffocherà; non direttamente, almeno. Ma ci sono effetti indiretti. Uno è la perdita di biomassa causata dalle attività umane. Quando le piante e gli animali muoiono, il carbonio in essi contenuto viene normalmente ossidato in biossido di carbonio, consumando ossigeno nel processo. La quantità totale di carbonio immagazzinato nelle creature viventi e nei suoli è stimato in circa 2.100 miliardi di tonnellate (Gton). Se tutto questo carbonio dovesse reagire con l'ossigeno, consumerebbe circa 5600 Gton di ossigeno (tenendo conto che un atomo di ossigeno pesa più di un atomo di carbonio e che ogni atomo di carbonio consuma due atomi di ossigeno). La massa totale di ossigeno nell'atmosfera è calcolata nell'ordine di 1,2x10^9 Gtons (vedi anche questo riferimento). Quindi, anche bruciare completamente tutta l'ecosfera del pianeta intaccherebbe appena la concentrazione totale di ossigeno, circa lo 0,4%.

Potremmo considerare anche il rilascio degli idrati di metano immagazzinati nel permafrost, una cosa che potrebbe accadere come risultato del riscaldamento globale. Il metano è un forte gas serra e quindi il processo si rinforza da sé, è questa l'origine della cosiddetta “catastrofe del metano” che risulterebbe in un disastroso effetto serra fuori controllo. La massa totale di metano immagazzinato nel permafrost è stimato nell'ordine di 500-2500 Gton di carbonio. Nel caso peggiore, il metano potrebbe consumare un altro 0,4% di ossigeno atmosferico.

Sommando tutto ciò che abbiamo preso in considerazione finora, metano, materia organica, combustibili fossili, vediamo che, anche per ipotesi piuttosto estreme, siamo ancora al di sotto della soglia del 1%. Così, sembra che siamo al sicuro. Tuttavia, dovremmo anche tenere conto che la riserva di gran lunga più grande di carbonio organico (e quindi in grado di combinarsi con l'ossigeno) sulla crosta terrestre è in forma di “kerogene”, il risultato della parziale decomposizione di materia organica. (Figura sotto da Manicore.com).


10^10 Gtons di kerogene è un valore talmente grande che se si dovesse combinare con l'ossigeno (circa 10^9 ton) non rimarrebbe più ossigeno nell'atmosfera. E questo sarebobe, in effetti, "il grande soffocamento".

Per fortuna è parecchio improbabile che accada. Il kerogene può reagire con l'ossigeno ed è, in realtà, la fonte originaria del petrolio che estraiamo e bruciamo oggi. Ma il processo naturale è molto lento e quello fatto dall'uomo molto costoso. Gli esseri umani non saranno mai in grado di bruciare più di una percentuale microscopica del kerogene della crosta terrestre (anche se a molti di loro, probabilmente, piacerebbe provarci).

Quindi, vediamo che la perdita di ossigeno, il grande soffocamento, non è una cosa di cui ci dovremmo preoccupare perché abbiamo molto più ossigeno nell'atmosfera di quanto ne possiamo consumare persino nelle peggiori ipotesi possibili. Abbiamo questo margine di sicurezza perché l'ossigeno libero è il risultato di miliardi di anni di attività di fotosintesi che ha immesso enormi quantità di ossigeno nell'atmosfera. Di questo ossigeno, gran parte è stato assorbito negli ossidi inorganici, principalmente ossidi di ferro. Solo una piccola percentuale si è gradualmente accumulata nell'atmosfera, come vediamo nella figura seguente (da Wikipedia – tenete conto del fatto che c'è una grande incertezza in queste stime)


Notate che un picco nella concentrazione di ossigeno è stato raggiunto in un passato remoto, forse in corrispondenza del picco della produttività biologica del pianeta. Al picco, la concentrazione di ossigeno potrebbe aver raggiunto un valore di oltre il 30% in volume – gli esseri umani non avrebbero potuto sopravvivere in quelle condizioni! Poi, potrebbe essere sceso a circa il 15% e, ancora una volta, non saremmo stati in grado di sopravvivere con quella concentrazione.

Così, l'ossigeno non è semplicemente accumulato nell'atmosfera per restarci per sempre. E' un gas reattivo e la sua concentrazione è collegata all'evoluzione dell'ecosistema. Ci sono fattori che possono fortemente cambiare la sua concentrazione, probabilmente implicando una reazione con la riserva di kerogene. Non possiamo sapere con certezza quali fattori causino questa reazione, ma una nuova flessione dell'ossigeno della concentrazione d'ossigeno risultante dai cambiamenti planetari in corso non può essere esclusa – anche se questa sarebbe probabilmente estremamente lenta per gli standard umani. Ciò di cui possiamo star sicuri è che dovremmo fare attenzione nel modo in cui trattiamo l'ecosistema terrestre – ne facciamo parte!





mercoledì 8 gennaio 2014

Weo 2013: Il limite della menzogna

Da “The Oil Crash”. Traduzione di MR


Cari lettori,
come sapete, la IEA ha la funzione di consigliare i governi dell'OCSE in materia di politica energetica col fine, fra gli altri, di prevenire ed evitare problemi di fornitura di petrolio come quelle sofferte durante gli anni 70 del secolo scorso. La IEA è restia a riconoscere che il picco del petrolio è già qui, visto che accettarlo la porterebbe a dover raccomandare l'adozione di una serie di misure che vanno contro la nostra società dei consumi in generale, contro il BAU, e contro il mantra della crescita infinita. Tuttavia, le previsioni o gli scenari che fa ogni anno la IEA, basati su modelli matematici che si alimentano con una pletora di dati raccolti dalle loro statistiche, andavano pronosticando sin dal 2005 un rapido aumento della produzione di petrolio che non si produce ancora e così, malvolentieri, la IEA ha cominciato ad accettare parzialmente la realtà. Così, nel 2010 ci ha sorpreso  nel riconoscere il fatto che  il picco del petrolio greggio (il petrolio “vero”, quello che esce dal sottosuolo da un pozzo convenzionale) è stato in torno al 2006, con questo grafico che è stato da allora il pettegolezzo degli esperti di mezzo mondo:

La situazione, hanno detto, non era tanto allarmante perché il petrolio greggio sarebbe rimasto in produzione costante per altri 25 anni e gli “altri liquidi del petrolio” (un guazzabuglio di succedanei più o meno equivalenti e alcuni petroli più classici ma che richiedono forme complicate di estrazione come il fracking) erano in grado di fornire questo petrolio extra di cui avevamo bisogno. Nel 2012 nella IEA hanno dato una piccola svolta in più e nel loro scenario centrale hanno riconosciuto che in realtà la produzione di petrolio greggio stava già cominciando a diminuire.

Ho trovato questo grafico molto rivelatore perché, seguendo le sue regole, la IEA mescolava volumi di sostanze molto diverse, ognuna delle quali con diverso contenuto energetico e alcune molto più costose da produrre di altre. Questo mi ha portato a scrivere un post, “Il tramonto del petrolio”, nel quale analizzavo quanta energia netta rimarrebbe alla società se si prendeva lo scenario centrale della IEA togliendogli alcune delle ipotesi più infondatamente ottimiste e, come ricorderete, quello che ne rimaneva non era molto incoraggiante:

Quest'anno ho voluto attualizzare il “Tramonto del petrolio”, data la rilevanza del tema trattato, ma non ho trovato da nessuna parte nel rapporto annuale WEO 2013 un grafico sull'evoluzione della produzione di petrolio, il che mi ha un po' sorpreso. Ho trovato, quello sì, un grafico che abbiamo già commentato, molto rivelatore di ciò che passa per la testa dei tecnici della IEA: come credono che si evolverà la produzione di tutti i liquidi del petrolio, escludendo i liquidi del gas naturale, “se non si verifica un investimento sufficiente” (mancanza di investimento che, di sicuro, riconoscono essere uno dei mali attuali):

Ma né nelle tavole del rapporto né in quelle del foglio di calcolo annesso coi valori delle uscite dei loro modelli si poteva trovare la produzione disaggregata dei diversi tipi di petrolio. Tutto ciò che ho trovato nel rapporto è stata la seguente tavola riassuntiva:



Nel foglio di calcolo appaiono soltanto più anni, ma il livello di dettaglio in ogni anno è lo stesso. Richiama l'attenzione questa distinzione fra “produzione di petrolio” e “fornitura di petrolio” (che permette di includere la categoria sempre discutibile di “guadagni di raffinazione”) e, curiosamente, che si lascino i biocombustibili fuori dalla categoria di produzione di liquidi del petrolio (e che, infine, li si includa per il loro equivalente di energia, anche se si dovrebbe fare la stessa cosa con tutte). 

Alla fine ero rassegnato al fatto di non poter attualizzare l'analisi de “Il tramonto del petrolio” quando un paio di settimane fa una conferenza di Mariano, alla quale partecipavo, mi ha messo sulla strada per ricostruire questi dati. Quello che non sapevo è che le mie indagini mi avrebbero rivelato che la IEA, nel suo tentativo di non allarmare i governi e i mercati, si trova sul punto di attraversare una linea rossa: quella della menzogna pura e semplice. 

Il grafico rivelatore che ha mostrato Mariano Marzo era la figura 14.8 dell'ultimo WEO 2013:

Lo avevo visto anch'io, visto che è l'unica che disaggrega la produzione di petrolio per tipi, ma invece di dare la produzione totale da soltanto le percentuali. Fino a un certo punto questo grafico ci deriva in modo subdolo l'informazione essenziale (la produzione totale) la si può considerare una manovra di copertura legittima di quelle che è solita fare la IEA. Pensate che l'Agenzia viene sottoposta a molte pressioni di organismi e governi perché trasmetta un messaggio politicamente accettabile, anche se allo stesso tempo deve cercare di essere fedele alla realtà, che in realtà significa non dire bugie manifeste. Ciò la porta a rigirare le sue affermazioni al punto di non dire bugie anche se induce a pensare cose che non sono vere (per esempio, che gli Stati Uniti esporteranno petrolio nel 2035). Tali antologie sono un po' strane dal punto di vista della mentalità mediterranea come quella della società in cui vivo, ma assumono un senso perfetto in paesi dove c'è una parola (inesistente in castigliano – e nemmeno in italiano) per designare la necessità di rendere conti rigorosi per la gestione realizzata: accountability. Così, la IEA è specialista nel non mentire ma camuffando la verità, non tanto per non rivelarla (il che sarebbe visto come qualcosa di probabile) ma per sminuirla con un sacco di dati irrilevanti. Persino le sue proiezioni sul futuro sono “scenari” di quelli in ogni rapporto ci ricordano che non si devono considerare previsioni ma esercizi speculativi basati su alcuni modelli che seguono certe linee guida. Tutta la formulazione verbale è diretta ad eludere possibili responsabilità che le si potrebbero attribuire in futuro. Io rispetto il lavoro che fanno alla IEA, perché cercare di essere veritieri e, ancora di più, preservare dai pericoli che stanno arrivando ed allo stesso tempo lottare con le mediocrità delle necessità politiche di breve termine è un lavoro molto difficile. 

Il fatto è che all'improvviso mi sono ricordato che di tutte le categorie che appaiono nel grafico ve ne è una per la quale si offriva, nel WEO 2013, un grafico abbastanza dettagliato della sua evoluzione: il petrolio leggero da roccia compatta - LTO, il suo acronimo inglese: 

Pertanto, se sapevo a quanti milioni di barili di petrolio corrispondeva il LTO ogni 5 anni da qui al 2035, grafico 14.11, ed allo stesso tempo quale percentuale rappresenta questo LTO del totale di produzione, grafico 14.8, con tre semplici regole potevo conoscere la produzione di ogni tipo di petrolio durante quegli anni ed in accordo con lo scenario stesso della IEA. 

Non vi annoierò con tutti i dettagli del procedimento, niente di elaborato per i più: misurando le altezze in pixel delle barre dei grafici (nel modo in cui ho già fatto nel caso de “Il tramonto del petrolio”) e mediante tre regole ho dedotto con una certa approssimazione quale era stato e ci si aspetta che sia la produzione di LTO (in milioni di barili al giorno, Mb/g) durante gli anni in questione: 

2012   1,96
2020   4,66
2025   5,70
2030   5,90
2035   5,57

Di sicuro, come vedete la IEA si aspetta che questo tipo di petrolio arriverà al suo picco senza mai essere più di un 6% del petrolio totale prodotto. Facendo qualcosa di simile col grafico 14.8 si ottiengono le seguenti percentuali a seconda del tipo di petrolio ed anno: 

                     Greggio   LGN    Pesante   LTO    Altri   Totale
==========================================
Anno 2012      79,1      15,1      02,2      02,2     01,4    100
Anno 2020      72,4      16,2      04,4      05,0     02,0    100
Anno 2025      69,9      17,1      04,9      05,6     02,5    100
Anno 2030      67,4      17,9      05,5      06,1     03,1    100
Anno 2035      66,3      17,7      06,8      06,2     03,0    100

Dato che per l'anno 2025 non ci sono dati ho effettuato una interpolazione lineare delle percentuali fra il 2020 e il 2030, che come vedremo non apporta un errore esagerato. Usando l'informazione della produzione di LTO estratta dal grafico 14.11 ottengo che i valori di produzione dei diversi tipi di petrolio sarebbero: 

                       Greggio   LGN    Pesante   LTO    Altri   Totale
===========================================
Anno 2012       70,5       13,4       02,0      02,0    01,2     89,1
Anno 2020       67,5       15,1       04,1      04,6    01,9     93,2
Anno 2025       66,4       16,2       04,8      05,2    02,4     95,0
Anno 2030       65,2       17,3       05,3      05,9    03,0     96,7
Anno 2035       59,5       15,9       06,1      05,6    02,7     89,8

O, sotto forma di grafico:

Pensate che io qui non sto stimando il contenuto energetico delle categorie di petrolio (questo grafico corrisponderebbe col primo dei grafici de “Il tramonto del petrolio”, quello del volume totale) e anche non include neanche né i (discutibili) guadagni di lavorazione né i biocombustibili, la variazione attesa degli stessi dal 2030 al 2035 è molto più piccola della diminuzione di quasi 7 Mb/g. Pensate che sto semplicemente incrociando i dati della IEA: questo è ciò che il suo grafico mostrerebbe se lo avessero rappresentato coerentemente con le percentuali raccolte nella figura 14.8. Insomma, i dati della IEA ci indicano, per la prima volta per questa agenzia, l'arrivo del picco del petrolio in volume, il che è una pietra miliare anche quando la data indicata, il 2030, è poco realistica, con quello che adesso sappiamo. 

Senza dubbio il mio metodo implica un certo grado di errore, tuttavia confrontando le mie previsioni con i dati dell'Allegato A (raccolti parzialmente nella tavola 14.1 che apre il post) si vede che questo errore è generalmente piccolo, eccetto che proprio per l'anno 2035:

Differenza percentuale della mia stima rispetto ai valori dell'Allegato A, prendendo questi come riferimento


                        Greggio       LGN      Non conv.       Totale
========================================
Anno 2012      +1,6%        +5,5%        +4,0%          +2,3%
Anno 2020      -0,3%         +2,0%       +1,9%           +0,4%
Anno 2025      -0,3%         +1,9%        -0,8%             0%
Anno 2030      -0,5%         +3,0%          0%             +0,2%
Anno 2035      -9,0%         -10,1%      -4,0%            -8,4%

Come c'era da aspettarsi, l'errore relativo è tipicamente maggiore quanto più piccola è la quantità a cui si applica. L'anno 2012 ha delle anomalie, probabilmente risultato di qualche revisione statistica dei dati della tavola 14.1 posteriori all'elaborazione del grafico 14.8, ma gli anni 2020 e 2030 sono abbastanza coerenti con la mia stima, il che è logico perché non si revisionano continuamente gli scenari. Le differenze dell'anno 2035 sono molto grandi e metodologicamente difficili da giustificare, essendo la produzione prevista di LTO ancora abbastanza elevata (l'errore della stima aumenta anche al diminuire del valore che stimo per la produzione di LTO). E' chiaro che i valori del 2035 sono stati manipolati. 

Ora facciamo l'esercizio inverso: assumiamo che i valore dell'Allegato A (quello che raccoglie parzialmente la tavola 14.1) siano corretti e che lo siano anche i valori percentuali del grafico 14.8; quali valori di produzione dei diversi tipi di petrolio ci risulterebbero? Questi:

                        Greggio    LGN    Pesante    LTO    Altri    Totale
=============================================

Anno 2012        68,9        13,2        1,9        1,9       1,2       87,1
Anno 2020        67,2        15,0        4,1        4,6       1,9       92,8
Anno 2025        66,4        16,2        4,7        5,3       2,4       95,0
Anno 2030        65.0        17,3        5,3        5,9       3,0       96,5
Anno 2035        65.0        17,4        6,7        6,1       2,9       98,1

E sotto forma di grafico:

Insomma, perché si possa dare nel 2035 i valori totali di produzione di petrolio non solo si deve aumentare il LTO, in realtà aumentano anche i pesanti, i LGN e, ciò che alla fine importa di più, il petrolio greggio – che dopotutto rappresenta la percentuale maggiore di produzione – si mantiene stabile a 65 Mb/g dal 2030 al 2035. Non a caso questo è un segno che la IEA ha fissato come livello di produzione verso il 2035nel suo rapporto del 2012. Da' l'impressione che in modo artificiale si sia mantenuto il livello di petrolio greggio fisso a questi 65 Mb/g ai quali giunge nel 2030 e che non è stato aumentato al di sopra di questo valore perché un tale cambiamento di tendenza della produzione di petrolio greggio risulterebbe difficile da giustificare. 

I numeri che doveva rappresentare quest'anno l IEA erano talmente difficili da far quadrare che, per la prima volta che io ricordi, qualcuno ha dovuto alterare i numeri a mano per occultare la verità. Qualcuno ha dovuto mentire perché non si veda ciò che non si può più nascondere: che la carestia di petrolio emerge già anche nei modelli così ottimisti, rispetto al nostro futuro, che usa la IEA. Non si può più giocare con i parametri ed ottenere che il modello si aggiusti ai dati presenti e allo stesso tempo offra dei dati luminosi su un futuro che esiste solo sulla carta. Ciò non si può ottenere, e qualcuno ha preso una decisione di vasta portata, come quella di mentire direttamente, nello stile in cui lo si fa di solito e continuamente un poco più a sud. 

Se questa informazione trapelasse, c'è da aspettarsi in una rettifica della IEA, una qualche smentita, un errore in buona fede che cerca di far quadrare ciò che non può quadrare (visto che perché non si veda la diminuzione della produzione, alcune categorie di petrolio devono aumentare la loro produzione in modo poco ragionevole). Ai tecnici cui toccherà sistemare questo disguido mi piacerebbe ricordare che, alla fine, qualcuno dovrà rendere conto di queste manipolazioni, le quali saranno peggiori e più difficili da fare ogni anno che passa. Dovrebbero pensare che, forse, non vale la pena giocarsi il proprio buon nome, la propria onorabilità e persino la propria libertà per una causa che non solo è persa, ma che non è nemmeno giusta. 

Saluti.
AMT



Forse 2°C sono troppi

L'obbiettivo dell'ONU dei 2°C non eviterà un disastro climatico, avvertono gli scienziati

Da “The Guardian”. Traduzione di MR

Il limite del riscaldamento convenuto è troppo tardivo e pericoloso in quanto un aumento della temperatura di 1°C innescherà eventi catastrofici, dice uno studio

Una casa sulla spiaggia di Doun Baba Dieye, Senegal settentrionale, giace in rovina dopo l'aumento di livello del mare.  Foto: Seyllou/AFP/Getty Images

Il limite di 2°C di riscaldamento globale convenuto dai governi del mondo è un “obbiettivo pericoloso”, “avventato” e non eviterà le conseguenze più disastrose del cambiamento climatico, ha avvertito martedì (3 dicembre) una nuova ricerca di un gruppo di eminenti climatologi. In un articolo il climatologo Professor James Hansen ed una squadra di esperti internazionali ha scoperto gli effetti più pericolosi di un clima che si riscalda – aumento del livello del mare, fusione del ghiaccio artico, eventi atmosferici estremi – comincerebbero ad presentarsi con una aumento della temperatura globale di 1°. Permettere al riscaldamento di raggiungere i 2°C sarebbe semplicemente troppo tardi, ha detto Hansen. “Il punto che sosteniamo è che 2°C in sé sono un obbiettivo molto pericoloso sul quale puntare”, ha detto al Guardian. “La società dovrebbe rivalutare quali sono i livelli pericolosi, dati gli impatti che stiamo già vedendo”. 

La ricerca pubblicata nella rivista peer-review PLoS One, rappresenta il maggior intervento pubblico di Hansen finora sulla politica climatica mondiale, che segue il suo pensionamento all'inizio del 2013 dall'Istituto Goddard per gli Studi Spaziali della NASA. Hansen, che ha lasciato la NASA per essere più libero di agire come difensore del clima, ha messo insieme un nuovo programma di politica climatica in settembre all'Earth Institute. In un'azione separata, è intervenuto a novembre a sostegno di una causa legale per richiedere al governo federale di agire per tagliare le emissioni di CO2 che causano il cambiamento climatico.

Il nuovo studio, tuttavia, è stato indirizzato allo smistamento delle competenze di altri 17 esperti di clima e politica da Regno Unito, Australia, Francia, Svezia e Svizzera così coma da USA, per sottolineare le conseguenze pericolose di attenersi all'obbiettivo del riscaldamento di 2°C approvato dalle Nazioni Unite e dai leader del mondo. L'IPCC ha avvertito nel suo grande rapporto di ottobre che al mondo restano solo circa 30 anni prima che esaurisca il resto delle 1.000 gigatonnellate di emissioni di carbonio di budget stimato che porta ad un riscaldamento di 2°C. Ma Hansen e i suoi colleghi hanno avvisato che l'obbiettivo dell'ONU non eviterebbe conseguenze pericolose, anche se mantenuto all'interno di quel budget di carbonio. “L'emissione da parte di combustibili fossili di 1.000 gigatonnellate, a volte associate ad un obbiettivo di riscaldamento di 2°C, è previsto che causino un grande cambiamento climatico con conseguenze disastrose. Il riscaldamento finale dall'emissione di 1.000 gigatonnellate di combustibili fossili è probabile che arriverebbe ben oltre i 2°C, per diverse ragioni. Con una tale tendenza delle emissioni e delle temperature, ci si aspetta che anche l'aumento di altri gas serra, compreso il metano e l'ossido di azoto, si aggiungano all'effetto dal CO2”, hanno detto i ricercatori. 

Il saggio attinge da diversi filoni di prove per sostenere il proprio punto, compreso il rapido declino del ghiaccio dell'Artico, dei ghiacciai di montagna e delle calotte glaciali di Groenlandia e Antartide, l'espansione delle zone subtropicali calde, l'aumento di siccità e incendi e la perdita di barriera corallina a causa dell'acidificazione dell'oceano. 

“Il punto principale è che l'obbiettivo dei 2°C – che è già quasi fuori portata, o sta rapidamente diventando fuori portata – è in sé un obbiettivo pericoloso perché porta ad un mondo fortemente destabilizzato dall'aumento del livello del mare e da grandi cambiamenti nei modelli climatici in diverse parti del mondo”, ha detto il Professor  Jeff Sachs, direttore dell'Earth Institute all'Università della Columbia, uno degli autori del saggio su PloS. Un problema ancora più grande, tuttavia, è stato che la comunità internazionale è stata ben lontana dal raggiungere persino quell'obbiettivo inadeguato, ha detto Sachs. “Ora siamo del tutto fuori strada a livello globale, ha detto. “Non siamo certamente in un mondo a 1°C. Non siamo nemmeno in un mondo a 2°C”. 

Il saggio continua a sollecitare tagli immediati alle emissioni globali del 6% all'anno, così come ambiziosi sforzi di riforestazione per cercare di mantenere le temperature sotto controllo. Il saggio riconosce che tali azioni sarebbero “estremamente difficili” da compiere, ma dice che è urgente cominciare le riduzioni adesso, piuttosto che aspettare i decenni futuri. 

Esso avverte che gli obbiettivi rimarranno ben oltre la portata a lungo con lo sfruttamento continuo di combustibili fossili come il carbone per produrre elettricità e il continuo sfruttamento di gas e petrolio non convenzionali. 

Il saggio offre anche prescrizioni, sollecitando l'adozione di una carbon tax diretta al punto di produzione e ingresso. “La nostra implicazione politica è che dobbiamo avere una tassa sul carbonio ed alcuni dei paesi più grandi devono accettarla e che se venisse fatto questo, allora sarebbe possibile far iniziare realmente a scendere le emissioni globali in modo rapido, penso”, ha detto Hansen. 

Lo studio richiede anche un'espansione dell'energia nucleare – che sarà controversa per i gruppi ambientalisti. Hansen è da lungo tempo sostenitore dell'energia nucleare come soluzione al cambiamento climatico ed è stato critico coi gruppi ambientalisti per non essere d'accordo. 

“Certamente qualche anno fa aveva senso essere molto cauti riguardo ad ogni ulteriore espansione dell'energia nucleare, ma sono successe molte cose negli ultimi decenni”, ha detto Hansen. “Il cambiamento climatico sta per diventare incontrollabile se non otteniamo elettricità libera dal carbonio... I gruppi ambientalisti devono guardare il mondo reale”.


Nota del traduttore: Abbiamo già parlato diverse volte del perché il nucleare non è un'opzione, per tutta una serie di motivi che sono di ordine energetico (picco dell'uranio), ambientale (del tutto ingestibile ed estremamente pericoloso e persistente), ma anche economico e tanti altri di cui non è il caso di parlare in questa breve nota. Chi volesse approfondire trova diverso materiale anche su questo stesso blog. Personalmente sono quindi molto in linea con la diagnosi, per nulla con la cura. Ho comunque deciso di tradurre e pubblicare questo articolo perché il punto centrale, qui, non è il nucleare sì o il nucleare no, ma che i 2°C in più rispetto ai tempi preindustriali, come in molti sostengono già da tempo, non sono affatto una soglia di sicurezza. E questo ci costringe ad un'azione immediata e radicale di taglio delle emissioni. 




martedì 7 gennaio 2014

Il Fracking si frattura

Da “The Oil Crash”. Traduzione di MR

Immagine da El Mono Político, http://www.elmonopolitico.com/2013/03/12/fracturacion-hidraulica-asi-se-pagan-los-platos-rotos-de-la-fiesta-energetica/fracking-for-web/

Di Antonio Turiel

Cari lettori,

la bolla del fracking sta giungendo alla sua fine. Già qualche mese fa analizzavamo la bassa redditività del gas e del petrolio sfruttati con questo metodo e l'assurdità economica del loro sfruttamento (specialmente nel caso del gas) e prevedevamo per niente luminoso per il loro sfruttamento, tanto negli Stati Uniti quanto nel resto del mondo. In solo nove mesi molti dei cattivi presagi sull'evoluzione dei giacimenti sfruttati mediante il fracking si sono andati confermando e tutta la bolla finanziaria montata intorno ad esso, sostenuta dall'inganno secondo il quale gli Stati Uniti saranno presto autosufficienti energeticamente è sul punto di sgretolarsi. Ricapitoliamo.

Cominciamo dalle denunce dell'industria stessa, ingannata dalle promesse alimentate dagli speculatori. Se già nell'agosto dello scorso anno Rex Tillerson, amministratore delegato di Exxon Mobile, denunciava al New York Times che nell'affare del gas da fracking “abbiamo tutti perso anche le mutande”, quest'anno è stata la volta di Peter Voser, nel momento in cui ha smesso di essere amministratore delegato della Shell, di riconoscere al Financial Times che la cosa di cui si pentiva di più era quella di essersi messo nel fracking . Il fatto è che nella frenesia del fracking negli Stati Uniti è stato reso prioritario il denaro liquido immediato davanti alla redditività a lungo periodo, dando per scontate condizioni economiche (che costi si sarebbero abbassati e che i prezzi sarebbero saliti) che alla fine non si sono verificate. I prezzi non salgono perché il consumo di gas naturale, dopo un leggero rialzo durante gli ultimi anni, sembra aver raggiunto il tetto e nell'ultimo anno si mantiene simile all'anno scorso, persino leggermente inferiore, se guardiamo i dati del consumo mensile della EIA del Governo degli Stati Uniti.

Pensate inoltre che il consumo annuale cresceva soprattutto perché lo faceva il consumo a valle, nel periodo di minor consumo – l'estate – perché il gas è meno caro in quel momento, il che ovviamente rendeva difficile rendere redditizio l'investimento. I fatti mal si addicono con certa propaganda interessata sulla rivoluzione dello shale gas in America e con l'inganno secondo il quale i prezzi si trovano grazie ad essa ai minimi storici.

Il fatto è che il costo della produzione di gas da fracking non è solo 2 o 3 volte superiore al prezzo attuale di vendita negli Stati Uniti (era necessario vendere il gas a più di 8 dollari ogni 1000 piedi cubici di gas perché tornassero i conti col fracking); il fatto è che lo sforzo necessario a mantenere i livelli produttivi attuali porta ad dover perforare sempre più pozzi ed un ritmo sempre più veloce, esponenziale, il che incrementa i costi reali ancora di più. Cosicché prima o poi doveva succedere ciò che sta succedendo, cioè che alcune delle formazioni più ricche di gas di roccia poco porosa (prima dicevamo gas di scisto ma non è il termine giusto per shale gas; in ogni caso, stiamo parlando del gas che si estrae per mezzo del fracking) stanno già cominciando a declinare. Peak shale gas.

Immagine da Oil Man: http://petrole.blog.lemonde.fr/2013/10/01/gaz-de-schiste-premiers-declins-aux-etats-unis/

Come mostra il grafico sopra di queste sopra queste linee, tratte da un eccellente articolo del miglior blog in lingua francese sul problema delle risorse naturali, Oil Man, le formazioni di Haynesville e Barnett, le due più produttive di gas di roccia poco porosa, sono giunte a loro rispettivi picchi di produzione in dicembre e novembre del 2011, rispettivamente. La stampa convenzionale americana comincia a farsi eco di ciò che sono dati e specula su quando aspettarsi che l'ultima grande formazione, Marcellus, entri in declino.

Naturalmente i promotori di questo tipo di estrazione diranno che si può aumentare la produzione se si investe di più, cosa che si dovrebbe fare con decisione perché, secondo loro, è la fonte energetica del futuro. In realtà si può dire lo stesso del petrolio convenzionale o di qualsiasi altra risorsa che giunge al proprio picco: è sempre vero che investendo di più si può estrarre più gas, petrolio, carbone e uranio. Il problema è che sia redditizio, cosa che, come abbiamo già spiegato, dipende dall'EROEI (redditività energetica, insomma) nonostante che, a quanto sembra, gli economisti non riescono a comprendere un concetto così semplice, ma che si scontra coi loro pregiudizi su come dovrebbe funzionare il mondo per adattarsi ai loro desideri. E' questo tipo di argomentazione sbagliata quella che porta a vendere come cosa praticamente fatta il miracolo che non arriva del petrolio da acqua ultra profonde del Brasile o della futura produzione di petrolio da Vaca Muerta in Argentina che dovrebbe invertire il declino terminale della produzione di petrolio della nazione andina. Menzogne per il consumo locale, cinismo nell'era del declino.

Per chi non capisca che si possa estrarre il gas di roccia poco porosa nonostante in esso si perdano ingenti quantità di denaro (10.000 milioni di euro solo nel 2012, come mostrava Dave Hughes nell'articolo apparso su Nature questo febbraio) raccomando di guardare i video della serie Frackonomics, al primo dei quali si accede seguendo il link che ho messo nel nome. La questione è semplice: “si tratta di una bolla finanziaria orchestrata da Wall Street”, nelle parole di Deborah Rogers dell'Energy Policy Forum. Se volete più dati sulla farsa dello shale gas  e dello shale oil (del quale parleremo ora) non mancate di visitare il sito ShaleBubble.org.

E cosa succede al petrolio di roccia poco porosa? Questa risorsa non è stata identificata in Europa (qui si parla solo di shale gas), perché i suoi giacimenti sono molto meno numerosi. Come spiegavamo nel post di inizio anno, il petrolio leggero di roccia compatta è redditizio in modo marginale; non darà grandi benefici, ma almeno ne dà qualcuno, non come il gas naturale di roccia poco porosa (l'economia dello shale gas, ad essere onesti, è un po' più complessa visto che i liquidi associati che appaiono in alcuni giacimenti rendono effettivamente redditizie alcune piattaforme). Tuttavia, le prospettive della sua produzione non sono tanto allegre come quelle dello shale gas: persino la IEA riconosce nei suoi rapporti che la sua produzione sarà sempre marginale (come abbiamo già detto in questo blog). Persino coloro che scommettono su un futuro luminoso per lo shale oil, come Goldman Sachs in un recente rapporto, riconoscono che la sua produzione arriverà al massimo al 2022:

Immagine da Oil Man, http://petrole.blog.lemonde.fr/2013/10/08/le-court-avenir-du-petrole-de-schiste-vu-par-goldman-sachs

Tuttavia, una volta che i posti migliori (sweet spots) sono stati sfruttati quello che rimane è più difficile e più caro da estrarre e meno redditizio. Se già per lo shale oil era necessario un prezzo al barile superiore agli 80 dollari, nella misura in cui passa il tempo il prezzo minimo sale finché a un certo momento non lontano questi giacimenti smetteranno di essere redditizi. E per non lontano intendo dire ora: anche se alcuni gestori famosi continuano a lodare gli incredibili vantaggi del fracking, la cosa certa è che il numero di pozzi attivi nella formazione di Bakken (la più produttiva proprio in questo momento) sembrano aver raggiunto un massimo a settembre dell'anno scorso (e ancora a novembre veniva negato), come mostra il grafico seguente, ancora una volta grazie a Oil Man:


Di nuovo la stessa argomentazione: con più investimenti uscirà fuori più petrolio, senza tenere conto che questo aumento di investimento può renderlo non redditizio e che logicamente gli investitori rifuggono gli investimenti non redditizi. Dave Hughes fa una stima più realistica di quello che ci si può aspettare dal petrolio di roccia compatta negli Stati Uniti:


Cioè, a seconda se si riesce ad aggiungere più o meno pozzi nuovi ogni anno il peak shale oil o punto di produzione massima di questo tipo di risorsa sarà nel 2015-2017. Non è un gran cambiamento, in ogni caso e il suo arrivo seppellirà tutti i sogni di indipendenza energetica degli Stati Uniti. E i problemi potrebbero arrivare prima: un articolo recente mette in guardia rispetto al fatto che la produzione dei pozzi di petrolio di roccia compatta attualmente in estrazione crolla di 63.000 barili al giorno in meno ogni mese e ogni volta crolla più rapidamente. 

Immagine da SRSrocco Report

Il che non è proprio poco se si tiene in considerazione che equivale al 71% della nuova produzione.

Immagine da SRSrocco Report

Entro poco tempo, forse in un paio di mesi, la nuova produzione non potrebbe già più compensare il declino dei pozzi già attivi: è come correre su un tapis roulant. Tutto questo sembra dare ragione a Dave Hughes ed alle sue stime di quando avverrà il picco del petrolio di roccia compatta. 

Le conseguenze di questa festa del fracking sono, naturalmente, molto negative. I gruppi anti fracking di solito si focalizzano sul problema dell'impatto ambientale, soprattutto sotto forma di inquinamento. Alla fine dei conti si devono iniettare ingenti quantità di acqua combinata a prodotti chimici abbastanza aggressivi e la maggior parte di quest'acqua torna in superficie, dove deve essere trattata o semplicemente immagazzinata. Questo aumenta lo stress idrico delle zone di perforazione (in Texas c'è una guerra aperta fra l'industria del fracking e gli agricoltori e gli allevatori) e aumenta il rischio che quest'acqua inquinata arrivi ad esaurirsi se non viene trattata in modo corretto (il che, dato l'ingente consumo e il ritmo frenetico, non è per nulla facile). Dall'altra parte, nonostante il tanto insistere sul fatto che le zone di frattura idraulica sono molto più profonde della falda acquifera e che la cassaforma della perforazione isola perfettamente la falda dalla penetrazione di sostanze chimiche che salgono e scendono, la cosa certa è che si sa che entro 5 anni almeno il 50% delle perforazioni presentano fessurazioni. L'effetto a lungo termine di questo inquinamento persistente pertanto è sconosciuto, data l'applicazione recente su ampia scala di questa tecnica. 

Meno conosciuto è il fatto è il fatto che il fracking è un incubo logistico con un grande impatto ambientale più convenzionale a livello superficiale. Le forniture per mantenere la frenetica attività arrivano via strada, in camion carichi di acqua, sabbia e prodotti chimici e nella maggior parte dei siti la scarsa produzione dei singoli pozzi (alcune decine di barili di petrolio al giorno, nel caso del tight oil) fa sì che persino il petrolio e il gas risultante venga trasportato via camion. Questo implica fare grandi piattaforme logistiche, con un grande impatto sul territorio ed altri problemi associati al traffico così intenso (gli incidenti possono essere abbastanza gravi). Ovviamente nessuno paga queste esternalità ambientali. Tuttavia, ci sono altre esternalità che possono portare che possono portare a breve termine alla bancarotta piccole comunità. Come spiega Deborah Rogers, alcune contee del Texas si vedono obbligate a tenere le strade continuamente dissestate  a causa dell'intenso traffico pesante che vi transita grazie a fracking e le tasse che raccolgono non coprono nemmeno lontanamente questa spesa, fino al punto di poter distruggere le casse delle contee. La cosa curiosa della Texas Railroad Commission’s Eagle Ford Shale Task Force che ha analizzato la questione è che implicitamente assume che l'affare smetta di essere redditizio. Quindi, ciò che viene venduto come un nuovo Eldorado può presupporre non solo la rovina ambientale – e quindi economica – a lungo termine, ma persino direttamente quella economica a breve termine nelle comunità dove viene impiantato. 

Il fiasco del fracking è una sorpresa, un bel sogno nel quale alcuni imprenditori hanno creduto in buona fede ma che la realtà ha smentito? Be', in realtà no: una velina al New York Times ha rivelato che già nel 2010 i funzionari del Dipartimento per l'Energia degli Stati Uniti opinavano che era molto difficile che lo shale gas o lo shale oil sarebbero mai arrivati ad essere redditizi. Si potrebbe persino parlare di manipolazione dell'informazione per favorire un determinato affare speculativo, nel quale i promotore gonfiano le aspettative mentre i responsabili dell'amministrazione guardano dall'altra parte finché non esplode tutto. Bene, la stessa cosa della bolla immobiliare che, come i cattivi seriali ora torna con forza in tutto il mondo.

Riassumendo questo lungo post: le risorse estratte mediante fracking si sono potute estrarre soltanto negli Stati Uniti grazie alla forza del dollaro come moneta di riserva e per un tempo limitato. Si fa importando energia incorporata nei materiali usati ed esportando inflazione e miseria, ma ma nemmeno così si riesce a farlo durare molto tempo. Ed ovviamente un tale schema non è fattibile nemmeno lontanamente in Europa. 

Dimentichi della sempre più evidente decadenza di questo tipo di estrazione negli Stati Uniti, in Spagna uno degli ultimi movimenti dei gruppi pro fracking è stato quello di tirar fuori questo video di lode dei sui benefici e di minimizzazione dei suoi problemi. Intanto, decine di gruppi locali contro il fracking, si mobilitano per cercare di bloccare i permessi. La battaglia è sempre più amara , ma a queste latitudini è chiaro che la prima parte può solo perdere, anche se questo non significa che la seconda vinca. In realtà la cosa più facile è che tutto il mondo perda se non si impone il buon senso. 

Saluti.
AMT


lunedì 6 gennaio 2014

Il segreto per evitare il collasso

Da “MAHB”. Traduzione di MR

Di Paul R. Ehrlich

La questione etica più importante  che affrontano la società e la comunità scientifica oggi è se possiamo evitare il collasso della civiltà globale in risposta alla “tempesta perfetta” di problemi ambientali di oggi. Cioè, pagheremo (o potremo pagare) a sufficienza oggi per risparmiare le generazioni future dal disastro assoluto? Le crisi collegate di sovrappopolazione, consumo superfluo, sistemi di supporto alla vita in rapido deterioramento, crescente iniquità sociale, una minaccia in aumento di guerre per le risorse (specialmente per il petrolio, il gas e l'acqua dolce), un ambiente epidemiologicamente peggiorato che aumenta le probabilità di pandemie senza precedenti e pregiudizi razziali, di genere e religiosi persistenti che rendono questi problemi più difficili da risolvere, rappresentano la più grande sfida mai affrontata dall'Homo Sapiens. L'urgenza di trovare risposte è rappresentata dai punti di vista di molti scienziati, punti di vista secondo i quali la società ha solo un decennio per iniziare un'azione correttiva drastica, che questo complesso di problemi collegati non è riconosciuto dalle elites che governano il mondo e che ciò non ha ancora generato un “problema pubblico” globale intorno alla sostenibilità.

La civiltà si sta gingillando mentre il suo sistema di supporto vitale brucia. L'incapacità di affrontare minacce sempre più ovvie provenienti dalla sola distruzione climatica ha chiaramente mostrato che la conoscenza scientifica, anche se ampiamente presentata al grande pubblico, può non produrre un cambiamento di comportamento adattivo. Una ragione fondamentale di questo è che gli esseri umani hanno sviluppato meccanismi meravigliosi per osservare e reagire ai cambiamenti improvvisi, in parte trattenendo mentalmente costante il sottofondo ambientale per far emergere i cambiamenti. Ma gli individui non sono ben equipaggiati per percepire i cambiamenti in quel sottofondo, come il graduale accumulo di gas serra e di componenti tossici nei loro ambienti. Una pietra scagliata contro la testa di qualcuno viene immediatamente tradotta in una minaccia all'esistenza; parole e grafici sull'aumento della concentrazione dei gas serra no. Alle nuove regole e istituzioni etiche è richiesto di sviluppare risposte adeguate a tali minacce difficili da visualizzare. L'incapacità di sviluppare norme ed istituzioni per superare questo handicap intrinseco non sorprende in vista dell'oscuramento che spazza gli Stati Uniti oggi.

Considerate solo la guerra repubblicana molto riuscita contro scienza ed educazione (e contro donne e minoranze). La nazione sta rapidamente regredendo da un mondo basato sulle prove a un mondo basato sulla fede. Pertanto, credo che gli scienziati ambientali debbano trovare nuovi modi di comunicare la situazione urgente al grande pubblico, offrendo soluzioni pratiche e farlo in una modalità focalizzata sull'etica centrata sulla preoccupazione per i nostri figli e nipoti. L'etica è lo standard comportamentale sul quale i gruppi umani si accordano; la sfida ora è quella di creare un movimento globale etico molto rapidamente che si accordi per cambiare le azioni umane a beneficio dei nostri discendenti. Modelli limitati di un tale sviluppo si possono trovare in elementi di movimenti di rivitalizzazione passati (i primi cristiani, le danze spiritiche, i “cargo cults”, il movimento per i diritti civili), che erano generalmente risposte a crisi degli ambienti fisici sociali o ambientali e avevano dei profeti (Gesù, Wovoka, Yali, Nelson Mandela, Martin Luther King). Il dilemma dell'uomo di oggi ha convinto molte persone che il business as usual non porterà ad una società che può soddisfare la maggior parte dei bisogni umani. Di conseguenza, un movimento ambientale ha fatto crescere questo, come i movimenti di rivitalizzazione precedenti, ha prodotto profeti (Aldo Leopold, Rachel Carson, Garrett Hardin, Jim Hansen, Bill McKibben).

Come molti predecessori, potrebbe essere considerato anti coloniale (Occupy Wall Street), ha aspettative millenarie (una possibile transizione ad una società sostenibile e giusta) ed è composta da persone, almeno negli Stati Uniti, che si sentono oppresse dalla concentrazione di ricchezza e potere nelle mani di uno stato corporativo-militare. Un tentativo di rivitalizzare l'ambientalismo è il Millennium Alliance for Humanity and the Biosphere (MAHB, mahb.stanford.edu), che fornisce un forum pubblico per generare informazione e soluzioni alla crisi ambientale globale. Sta cercando di mobilitare partecipazione dalle persone delle diverse comunità, comprese le ONG, i politici, le imprese, le università, i filantropi, la religione e i media per sviluppare una rivitalizzazione. Il MAHB cerca di giocare due ruoli chiave. Il primo è quello di concentrarsi su tutti gli elementi del dilemma umano e le loro interazioni nel tentativo di far progredire e diffondere la comprensione della crescente minaccia alla civiltà. Il secondo è quello di generare una risposta appropriata al dilemma umano di fronte al fallimento della società nel fare questo.

 Il MAHB spera di imparare dai precedenti movimenti di successo promuovendo apertamente un'agenda politica che comprenda l'alterazione drammatica dell'ordine sociale (per esempio, il capitalismo sregolato, l'iniquità sociale galoppante, l'esaurimento del capitale naturale) e cercando di sviluppare nuove norme con un forte focus sull'etica (per esempio rifuggire l'eccesso di riproduzione, il consumo competitivo, il razzismo e il sessismo; prendendosi cura sia dell'ambiente sia delle persone in altre culture, così come delle future generazioni). La rivitalizzazione sembra un ordine alto, ma come ho già detto [1] sono convinto che. . .  un movimento quasi religioso, uno preoccupato del bisogno di cambiare i valori che ora governano gran parte dell'attività umana, sia essenziale per la persistenza della nostra civiltà.

[1] Machinery of Nature, 1986, p. 17

sabato 4 gennaio 2014

Gaia, la sposa che non c'è

Da “Cassandra's Legacy”. Traduzione di MR


Il libro di Toby Tyrrel “A proposito di Gaia” è un libro interessante sotto molti aspetti, ma tralascia alcune caratteristiche importanti del meccanismo di autoregolazione planetario che mantiene in vita la Terra:  Gaia. (immagine da  Alternative Energy Action Now )


Immaginate che un amico vi inviti al suo matrimonio. Ci andate e trovate tutto ciò che vi aspettate di vedere: la chiesa, i fiori, il prete, lo sposo e così via. Ma, mentre la cerimonia procede, notate che il vostro amico ha trascurato qualcosa di importante: la sposa non c'è.

Col libro di Toby Tyrrel, “Su Gaia” si ha un'impressione simile. E' ben fatto per molti aspetti e un sacco di dettagli sono al posto giusto: evoluzione, vita, clima e molto altro. Ma, continuando a leggerlo, si nota che l'autore sembra aver trascurato qualcosa di importante: manca Gaia stessa.

Si dice che i matrimoni falliscano a causa delle eccessive aspettative degli sposi. Lo stesso problema sembra affliggere più di uno studio su Gaia, compreso questo. Alcuni sembrano aspettarsi davvero troppo dalla povera signora e finiscono per concludere che non esista neanche – come Tyrrel fa col suo libro. La sua conclusione è del tutto negativa: non c'è nessun sistema di retroazione stabilizzante chiamato Gaia e il fatto che la Terra abbia conservato condizioni favorevoli alla vita per circa 4 miliardi di anni è dovuto a “rischio e casualità” (pag. 206 del libro).

Il problema delle eccessive aspettative è apparso presto nella storia degli studi della stabilità dell'ecvosistema terrestre. James Lovelock, l'iniziatore dell'idea di Gaia (insieme a Lynn Margulis), ha proposto che Gaia possa “ottimizzare” l'ecosistema a beneficio della vita. Questo era troppo. L'ecosistema terrestre è un sistema complesso di cicli biologici e geofisici che interagiscono fra loro – alcuni tendono a stabilizzare il sistema, altri a destabilizzarlo. Il risultato finale è quello tipico di ogni sistema complesso: la tendenza del sistema di opporsi alle perturbazioni. Non è ottimizzazione – è omeostasi; qualcosa che tende a mantenere i parametri del sistema entro certi limiti.

Ci sono molti esempi di questo comportamento, per esempio il nostro corpo è un sistema complesso che fa proprio questo: persegue l'omeostasi. Se la temperatura del nostro corpo diventa troppo alta, il nostro termostato interno la abbasserà sudando. Ma non possiamo aspettarci che il termostato sia perfetto ed onnipotente: se cadiamo in un tino di olio bollente, il sudore non ci aiuterà più di tanto. La stessa cosa è vera per Gaia che è – principalmente – un termostato planetario che tende a mantenere la temperatura planetaria entro i limiti richiesti perché l'acqua liquida (e quindi per la vita) esista. Non dobbiamo aspettarci che il termostato sia perfetto  ed onnipotente e, infatti, la storia della Terra ha visto accadere ogni sorta di catastrofe, quando il pianeta è diventato molto caldo o molto freddo, quasi distruggendo tutta la vita che vi era contenuta. Ma il sistema ha sempre recuperato ed ha contrastato ogni sorta di perturbazione. Ciò include il graduale aumento dell'irraggiamento solare negli eoni che, se non fosse stato bilanciato da una diminuzione nella concentrazione di gas serra nell'atmosfera, avrebbe dovuto avere un effetto deleterio sulla vita sulla Terra.

Curiosamente, tuttavia, Tyrrel non riesce proprio a vedere il termostato in azione. Una ragione è che è molto difficile capire il sistema di retroazioni della Terra senza tenere conto della geologia e l'autore ha chiaramente dei problemi ad integrare la geologia nella discussione. La geologia, infatti, è la vera e propria “sposa che non c'è” del libro. I cicli dell'ecosistema terrestre coinvolgono scambi continui di materia dalla superficie al mantello e viceversa. Questi cicli rinnovano la composizione atmosferica e forniscono gli elementi chimici necessari alla vita. Senza un nucleo caldo che fornisce energia per questi scambi, la Terra non potrebbe essere un pianeta vivo – sarebbe morto come Marte.

Non che i fenomeni geologici non siano discussi nel libro di Tyrrel, ma spesso lo si fa in modo frettoloso ed insufficiente. Ciò è vero in particolare per il meccanismo principale del termostato terrestre: la degradazione dei silicati. E' parte del ciclo planetario del carbonio, una reazione chimica che rimuove biossido di carbonio dall'atmosfera. Il tasso di reazione dipende dalla temperatura, quindi ha capacità regolatrici della temperatura (vedete questo mio post per un'introduzione e il rif. (1) per una discussione approfondita). Tyrrel menziona la degradazione dei silicati per la prima volta solo a pagina 141, arrivando rapidamente alla conclusione che è solo un fattore negativo per la vita a causa del suo effetto raffreddante (2). A parte qualche menzione nelle note finali, si deve arrivare quasi alla fine del testo principale (pagine 191-192) per trovare una breve esposizione del fatto che la disgregazione dei silicati possa essere parte di un meccanismo che stabilizza la temperatura. La conclusione di Tyrrel è negativa, apparentemente su nessun'altra base se non un generico scetticismo.

Ora, naturalmente si può dissentire su tutte le attuali interpretazioni scientifiche, ma considerato che la reazione dei silicati è un elemento centrale di tutta la questione del termostato, meriterebbe sicuramente un po' più di esposizione prima di respingere Gaia come non esistente. Questo problema non è il solo legato alla geologia del libro. Altri fattori, per esempio l'effetto della luminosità del Sole in aumento, mancano o vengono appena citati. Così, è molto deludente che il libro fallisca così miseramente l'obbiettivo dichiarato – Gaia – specialmente considerando che ha diverse parti che sono ben fatte e che vale la pena leggere, come la discussione sugli effetti delle temperature sulla produttività biologica.

Alla fine, penso che ci sia un problema di fondo nell'approccio di Tyrrel. Nella sezione “Conclusioni”, dichiara che accettare o rifiutare l'ipotesi Gaia ha un forte effetto su “come decidiamo di gestire il Sistema Terra”  e che “Gaia, per la natura stessa dell'ipotesi, inculca una predisposizione a sospettare che le retroazioni naturali siano stabilizzanti”. In altre parole, Tyrrel enfatizza che Gaia potrebbe generare un pericoloso sentimento di compiacimento nella gente e ostacolare i suoi tentativi di combattere il cambiamento climatico.

Mi permetto di dissentire su questo punto. Non che non condivida le preoccupazioni di Tyrrel sul riscaldamento globale, ma nella mia esperienza personale ho notato l'atteggiamento opposto. Il concetto di Gaia come fattore stabilizzante sul clima è normalmente alieno alla mente del tipico negazionista della scienza. Piuttosto, gran parte di loro sembra usare il meme esattamente opposto: “il clima è sempre cambiato”, normalmente senza mostrare il benché minimo interesse su cosa esattamente causi il cambiamento del clima. Naturalmente, internet è così vasto che possiamo trovarci praticamente tutto e, come prova della propria posizione, Tyrrel cita un sito specifico che va sotto il nome di “The Resilient Earth” (La Terra resiliente). Tuttavia, a parte il titolo, i contenuti del sito sembrano essere il solito polpettone di meme negazionisti: "nessun riscaldamento durante gli ultimi 15 anni", "Al Gore è grasso" e cose del genere. L'opinione generale che si può leggere nei siti negazionisti su Gaia è che il concetto è la prova vivente che il cambiamento climatico non è scienza ma una religione – intesa in senso dispregiativo (la figura sotto sembra riassumere l'opinione negazionista di Gaia. Da thepeoplescube.com)


Così, credo che l'ultima cosa di cui dovremmo preoccuparci è che il concetto di Gaia possa ingenerare un pericoloso atteggiamento di “lasseiz faire”. Al contrario, capire i fattori che determinano la temperatura della Terra può solo generare una dose salutare di rispetto per l'equilibrio delicato che ha mantenuto il clima stabile durante gli ultimi 10.000 anni circa. L'omeostasi non è garanzia di assoluta stabilità; ciò vale per l'intero pianeta così come vale per le biciclette (e le seconde sono una cosa che tutti capiscono).

Alla fine, Gaia non è una Dea (di sicuro non una Dea benevola). Non è onnipotente, non ha la capacità di ottimizzare l'ambiente della Terra per la vita e non è affatto una garanzia che possiamo continuare a comportarci come degli hooligan planetari senza subire le conseguenze delle nostre azioni. Gaia è un sistema enorme e complesso, un groviglio gigantesco di retroazioni geologiche e biologiche. Stiamo appena cominciando a capire come questo sistema generi la sua tendenza generale alla omeostasi e come si sia evoluto nel corso di miliardi di anni della sua esistenza (3). Continuerà ad evolvere finché, fra centinaia di milioni di anni, "morirà" quando il Sole diventerà troppo caldo perché i meccanismi omeostatici continuino a funzionare. Nel frattempo dobbiamo continuare a vivere su questo pianeta (se ci riusciamo). Gaia potrebbe non essere la sposa perfetta, ma non possiamo continuare a comportarci come se non esistesse.

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1. Per una panoramica sugli effetti climatici della disgregazione dei silicati, vedete Lee R. Kump, Susan L. Brantley e Michael A. Arthur, Disgregazione Chimica, CO2 Atmosferico e Clima, Rivista Annuale della Terra e delle Scienze Planetarie vol. 28: 611-667 (data di pubblicazione del volume maggio 2000) DOI: 10.1146/annurev.earth.28.1.611

2. Questo punto illustra i problemi che questo libro ha con la geologia. A pagina 142, Tyrrel attribuisce una delle “5 grandi” estinzioni di massa, quella del tardo Devoniano, all'eccessivo raffreddamento causato dalla disgregazione dei silicati. Ma non dice nulla sull'opinione comune che le estinzioni di massa sembrano essere causate dall'eccessivo riscaldamento (compresa quella del Devoniano). Vedete per esempio David L. Kidder, Thomas R. Worsley “Le grandi province eruttive del Fanerozoico (LIPs), episodi di Trasgressione Termica Alina, Acida, Euxinica (HEATT) ed estinzioni di massa” Paleogeografia, Paleoclimatologia, Paleoecologia, volume 295, numeri 1-2, 1 settembre 2010, pagine 162-191

3. per una descrizione completa dei cicli di retroazione del sistema Terra, farete bene a leggere il libro di Tim Lenton e Andrew Watson “Rivoluzioni che hanno Fatto la Terra”. Attenti: non è un libro facile da leggere, ma vale sicuramente lo sforzo.

Su Gaia, vedete anche questi post del sottoscritto Ugo Bardi:

La grande reazione chimica: Vita e Morte di Gaia
Man Vs. Gaia
I prossimi 10 miliardi di anni